Paleolitico “mon amour”

Paleolitico “mon amour”

di Elvira Visciola

Marija Gimbutas parlava di Europa antica per il Neolitico, comprendendo un vasto territorio in cui le popolazioni si spostavano portando con sé i propri usi e costumi che trasferivano alle popolazioni che incontravano. In realtà, nonostante le tracce siano più labili e lontane anche di diverse migliaia di anni, è possibile parlare di Europa antica sin dal Paleolitico Superiore, proprio perché alcuni simboli, strumenti, usi, costumi, materiali, arte mobiliare e parietale hanno similitudini anche in luoghi distanti migliaia di chilometri tra loro, in aree che ad oggi l’archeologia accademica tende a trattare come diversificate. Le tracce del Paleolitico Superiore che troviamo in Italia sono manifestazioni molto simili a quelle dell’area Franco-Cantabrica o dell’area Balcanica, come se le società di cacciatori raccoglitori del passato avessero sviluppato una spiritualità, modelli di comportamento, idee e simboli abbastanza simili, la cui diffusione venne accettata a livello di continente europeo se non anche ben oltre.

Nel testo che segue ho voluto mettere insieme tutto ciò che ad oggi fornisce la prova più evidente di quanto la penisola italiana fosse parte integrante di una cultura Paleolitica in Europa.
In Italia la ricerca sui siti Paleolitici è avvenuta molto in ritardo rispetto ad altri paesi europei a causa dei seguenti motivi:

  • inizialmente per indicazioni errate da parte dell’archeologia accademica; Luigi Pigorini, massimo paletnologo in Italia a cavallo tra 800 e 900 (periodo in cui cominciavano le prime scoperte di reperti preistorici) decise impropriamente che in Italia non vi erano mai state tracce di Paleolitico, diversamente dalla Francia e Spagna dove le scoperte della Grotta di Lascaux e di Altamira contribuirono alla nascita della preistoria, fino ad allora ignorata; questa sorta di dannazione proseguì a lungo, anche dopo la morte del Pigorini, poiché i suoi seguaci continuarono ad ostacolare chiunque provasse anche solo a parlare di reperti databili ad un periodo antecedente al neolitico[1]. Fu solo dagli anni 40 che cominciarono ad approfondirsi gli studi sul Paleolitico Italiano nonostante le scoperte fossero avvenute molto tempo prima;
  • questo ritardo determinò una mancanza di studi specifici. L’Italia è un paese ricco di storia, soprattutto greca, etrusca, romana ed oltre, periodi su cui si sono concentrate maggiormente le ricerche; solo negli ultimi tempi si registra un interesse particolare verso la Preistoria, con una maggiore concentrazione delle ricerche sul Paleolitico e contributi importanti a livello internazionale.

Come prova dell’esistenza di un importante patrimonio visivo condiviso in un’ampia parte dell’Eurasia durante il Paleolitico superiore nell’immagine seguente è rappresentata un’Alca Impennis, un uccello della famiglia dei pinguini incapace di volare, attestato in zone da clima freddo, che si estinse intorno alla metà del XIX secolo per via della caccia che l’uomo diede a questo animale, in quanto considerato una preda ambita dai collezionisti che usavano metterlo in mostra nei musei[2].

Alcuni esempi di arte parietale del Paleolitico Superiore a raffigurare l’Alca Impennis, distribuiti in un’ampia zona del bacino del Mediterraneo (ph. D. Sigari, 2021)

Ritornando all’immagine, bisogna precisare che esistono rari casi in cui gli uccelli siano rappresentati nell’arte paleolitica, pertanto questo pannello è particolarmente significativo: l’alca è stata trovata nell’arte parietale della grotta di El Pendo in Spagna e della grotta Cosquer in Francia, oltre ad esemplari di arte mobiliare su un ciottolo di Grotta Paglicci in Puglia datato a circa 15.000 anni fa, inciso sulle pareti di Grotta Romanelli sempre in Puglia e su un esemplare dal sito di Laugerie-Basse in Francia.
Ciò vuol dire che l’alca impennis era una specie che i paleolitici di queste aree, che vanno dal sud Italia al nord della Francia e Spagna, hanno visto e l’hanno rappresentato nelle loro grotte con i dettagli figurativi che lo contraddistinguono, a testimonianza della diffusione di motivi iconografici comuni in tutto il bacino del Mediterraneo e di condizioni climatiche simili presenti nell’intero territorio. Dai depositi di terre brune di Grotta Romanelli provengono inoltre due reperti di alca impenne, un omero ed una ulna, esposti al Museo Civico di Maglie, in provincia di Lecce, a testimonianza della presenza di questa specie in area mediterranea.

L’arte parietale: pitture e graffiti rupestri all’interno delle grotte

Facendo riferimento alla pittura parietale Paleolitica, in Italia allo stato attuale si fa riferimento a Grotta Paglicci in Puglia che, con i suoi esemplari, non ha nulla da invidiare ad altri esempi più noti europei.

In alto a sinistra la lastra ritrovata a Grotta Paglicci in Puglia, su cui è raffigurata la parte posteriore della zampa di un cavallo; in alto a destra un cavallo raffigurato sulle pareti della Grotta di Lascaux in Francia e al centro il dettaglio dello zoccolo del cavallo (ph. A. Palma di Cesnola, 1988)

In particolare il reperto di maggior interesse è una spessa lastra calcarea ritrovata sul suolo dell’atrio della grotta, probabilmente staccatasi dalla volta; è la lastra raffigurata qui sopra nell’immagine in alto a sinistra, sulla cui superficie è dipinta in color rosso sanguigno scuro la porzione posteriore della zampa di un cavallo che corre verso destra, rappresentata fino alla parte posteriore del ventre. Il contorno è a tratto continuo ed uniforme, disegnato con estrema maestria e precisione, tanto da dare la sensazione della terza dimensione. Si ipotizza che la figura sia stata nell’insieme di circa 45 cm. e che il reperto sia un frammento di una scena più ampia dipinta sulla volta dell’atrio della grotta, dipinto che per il resto è andato totalmente perduto. I dettagli rappresentati oltre al particolare dello zoccolo del cavallo ricordano stilisticamente le produzioni artistiche della Grotta di Lascaux, in particolare i cosiddetti “cavalli cinesi” del diverticolo assiale, a testimonianza della presumibile esistenza nella penisola italiana di una “scuola pittorica” risalente al Paleolitico Superiore riferibile agli esempi della regione franco-cantabrica.

A sinistra uno dei due cavalli di Grotta Paglicci ed in basso a destra la parete dove sono raffigurati entrambe i cavalli; in alto a destra la parete con le mani (ph. A. Palma di Cesnola, 1988)

Sempre da Grotta Paglicci provengono i due cavalli dipinti in rosso sulla parete di una saletta molto interna, di cui uno rappresentato in verticale, come se emergesse dalla terra, e l’altro di profilo, quasi invisibile in quanto nel tempo l’immagine si è quasi totalmente sbiadita; sono in pieno stile arcaico che riprende quello Franco-Cantabrico, con gli animali raffigurati in posizione statica ed i ventri voluminosi e rigonfi da far pensare a giumente gravide.
In prossimità della parete anche una serie di mani, almeno cinque sicuramente riconoscibili, alcune sono “positive”, ossia dipinte per diretta impressione delle mani spalmate di colore, altre sono “negative”, ossia realizzate spruzzando colore attorno ad esse.

Uno studio del 2009 condotto dall’archeologo e docente della Pennsylvania State University, Dean Snow, su alcune grotte franco-cantabriche (Grotta di Peche Merle, Abri du Poisson, Font de Gaume, Chauvet, Gargas in Francia; Altamira, El Castillo ed altre in Spagna) si è concentrato sulle impronte di mani lasciate all’interno delle grotte paleolitiche evidenziando che queste erano perlopiù piccole e sottili e pertanto ha ipotizzato appartenessero al genere Homo Sapiens femminile. Per avvalorare la sua tesi ha confrontato le antiche impronte con alcune più moderne evidenziando che molte di quelle arcaiche presentano il dito anulare e l’indice lungo ed il mignolo piccolo, tipico, a suo avviso, delle mani femminili.

Sempre parlando di arte parietale, ma questa volta di graffiti rupestri, a Grotta del Romito in Calabria è rappresentato un uro sfruttando le deformazioni del supporto roccioso; spesso gli abili artisti Paleolitici hanno utilizzato le fratture e le convessità dei blocchi che suggerivano alcune parti anatomiche degli animali (ad esempio il dorso, la coda e la linea cervicale), oltre ad usare le irregolarità della superficie rocciosa per creare una sorta di effetto tridimensionale. Una caratteristica che ritorna in molte produzioni di arte paleolitica europea.

A destra l’uro di Grotta del Romito in Calabria (ph. D. Sigari, 2020) e a destra il cavallo di Grotta del Caviglione in Liguria

Nel caso della Grotta del Caviglione in Liguria, una delle grotte del complesso dei Balzi Rossi, è stata scoperta un’incisione a circa 7 metri di altezza dal livello del suolo attuale, con una figura in stile naturalistico raffigurante un cavallo della steppa (chiamato cavallo Przewalski) vissuto nella fase finale della “glaciazione del Wurm” ed affine al contemporaneo cavallo selvaggio della Camargue. Il corpo dell’animale è solcato da profondi intagli verticali alcuni dei quali sono risultati anteriori alla sua esecuzione, quindi anche in questo caso il graffito è stato inciso tenendo conto di queste profonde fessure, mentre altre sono sovrapposte alla figura zoomorfa.

Una manifestazione di arte parietale che ha suscitato un accesso dibattito circa la sua interpretazione proviene dalla Grotta dell’Addaura in Sicilia: sono rappresentate figure in stile naturalistico, statiche, con un profilo essenziale, spesso con pochi dettagli anatomici (occhi, bocca, sesso), ma nel complesso è rappresentata una scena narrativa, focalizzata nei due personaggi distesi a terra interpretati in una sorta di rito d’iniziazione o rito per la fecondità, mentre le altre figure osservano la scena principale; secondo altri la scena rappresenta un sacrificio umano, per la presenza di due segmenti, uno tra la spalla e le natiche del primo personaggio e l’altro tra la spalla ed i piedi del secondo personaggio, che fanno pensare alla posa degli “incaprettati”.

Il pannello centrale, con 2 immagini di dettaglio a sinistra e destra, proviene dalla Grotta dell’Addaura in Sicilia (ph. Museo Regionale archeologico di Palermo)

Un’interessante interpretazione della scena menzionata è quella descritta dalla paleontologa Maria Laura Leone nel suo libro “La fosfenica Grotta dei Cervi” (2009) secondo cui le figure sono state concepite come fossero in movimento ed i diversi personaggi che danzano attorno ai due uomini distesi per terra sono in realtà uno o due personaggi con la maschera a becco d’uccello, nell’atto di una pratica sciamanica rivolta verso l’unico personaggio a terra, raffigurato in una doppia posizione, probabilmente in preda a convulsioni o addirittura un attacco di epilessia, tipico di chi veniva prescelto come sciamano. Questo pannello rappresenta ad oggi un unicum in Europa, sia per la scena rappresentata, così articolata e decisamente narrativa, sia per le caratteristiche stilistiche utilizzate che non hanno riferimenti né nello stile mediterraneo né in quello franco cantabrico.

Ritornando alle pitture parietali e parlando di figure antropomorfe sono interessanti due immagini da Grotta di Cala dei Genovesi a Levanzo in Sicilia: le figure antropomorfe dipinte in ocra rossa hanno testa cuneiforme, come se indossassero un copricapo o una maschera, non presentano lineamenti del volto e sembrano emergere dalle profondità della terra, come nel caso del cavallo di Grotta Paglicci. L’imprecisione anatomica che le caratterizza e la scarsità di particolari anatomici possono ricordare le pitture antropomorfe della regione franco-cantabrica.

A sinistra e al centro le figure in ocra rossa dalla Grotta di Cala dei Genovesi a Levanzo in Sicilia (ph. per gentile concessione www.grottadelgenovese.it) in alto a destra il pannello con le figure antropomorfe (ph. S. Tusa, 1997)

Ai piedi della parete di fondo della grotta, in un punto isolato, sono incise tre figure umane accostate l’una all’altra in una posizione che è stata interpretata come in una danza. La scena sembra voler dare particolare risalto alla figura centrale, di dimensioni maggiori rispetto alle altre, con il volto privo di lineamenti e la testa cuneiforme come gli antropomorfi in ocra rossa; sul petto scendono lunghi filamenti che sembrano alludere ad una barba (P. Graziosi, 1962), mentre il corpo mancante delle braccia presenta una serie di brevi tacche continue che seguono il profilo della figura e terminano all’altezza della cintura. Alla sua destra vi è un personaggio di dimensioni minori, in posizione leggermente arretrata rispetto al primo, con la testa priva dei lineamenti del volto ed un copricapo simile; questa figura è stata interpretata come un personaggio femminile, per le sue forme sinuose e per tre linee al braccio che fanno pensare a bracciali. La terza figura è la più piccola, posta alla sinistra del personaggio centrale, in posizione arretrata rispetto alle altre, con le braccia sollevate, forse raffigurata in una scena di danza; la testa è di profilo, rivolta verso la figura centrale, con il volto ricoperto da una maschera a becco d’uccello (P. Graziosi, 1950).

Il copricapo degli antropomorfi di Levanzo ha un chiaro rimando nel copricapo dell’antropomorfo dei livelli aurignaziani di Grotta Fumane in Veneto; si tratta di un frammento di 24×11 cm., dipinto in ocra rossa, ritrovato insieme ad altri frammenti capovolti alla base del livello archeologico, a testimonianza del fatto che i frammenti si erano staccati dalla volta o dalle pareti della cavità che quindi erano dipinte.

A sinistra lo sciamano di Grotta Fumane in Veneto; al centro l’uomo-leone di Hohlenstein-Stadel; a destra lo sciamano della grotta des Trois-Freres in Francia

L’immagine rappresenta una figura umana con il corpo a sviluppo lineare, braccia orizzontali e gambe divaricate, due grandi corna sul capo triangolare identificate come una maschera e all’altezza dell’ombelico due piccole prominenze laterali; dal braccio destro pende qualcosa, forse un animale a quattro zampe oppure un oggetto rituale; è stata interpretata come una figura sciamanica, simile ad altre figure trovate in siti dell’aurignaziano, come la statuetta in avorio dell’uomo-leone di Hohlenstein-Stadel e la figura sciamanica con corna di cervo dipinta nella grotta des Trois-Freres in Francia o come quelle della Grotta del Genovese evidenziate nell’immagine precedente.

Sempre in tema di figure antropomorfe, di particolare importanza è il sito di Riparo Dalmeri in Trentino Alto Adige, che ha restituito un totale di 220 pietre autoctone dipinte in ocra rossa, con dimensioni di circa 15x10x6 cm., trovate tutte sul pavimento della grotta e datate a circa 11.250 a.C. cal. Le pietre sono dipinte con motivi diversi, molte con rappresentazioni zoomorfe, altre con figurazioni simboliche schematiche, mani, figure composite, diversi tipi di pietre con tracce di pigmento rosso ed alcune pietre con figurazioni antropomorfe. Anche in questo caso, come nella Grotta di Fumane, le pietre sono state rinvenute con la faccia decorata rivolta verso il basso, a testimonianza del fatto che le pietre si sono staccate dalla volta o dalle pareti dipinte. Gli studi hanno consentito di accertare che nel più antico livello di occupazione del riparo era stata delimitata un’area dove venivano svolte azioni di tipo rituale, forse cerimonie di iniziazione o luogo di aggregazione in particolari ricorrenze o per pratiche di culto (G. Dalmeri ed altri, 2009).

Alcune delle pietre in ocra rossa ritrovate sul pavimento di Riparo Dalmeri in Trentino Alto Adige (ph. G. Dalmeri ed altri, 2009)

Le pietre con chiare raffigurazioni antropomorfe sono 4, rappresentate in postura ieratica con il tronco eretto, fianchi dritti e paralleli, arti inferiori fortemente divaricati. In particolare, il reperto nell’immagine al centro e quello in basso a sinistra hanno entrambe una sorta di copricapo in testa che si estende trasversalmente, in maniera simile al copricapo dell’antropomorfo di Grotta Fumane o di Grotta di Levanzo; in entrambi i casi potrebbe trattarsi di un’immagine maschile, ma non è da escludere che sia femminile, forse in posizione di parto o con una postura durante un rituale o una danza. L’antropomorfo nell’immagine in alto a sinistra è rappresentato come fosse in movimento durante una danza, mentre l’immagine in alto a destra è in posizione ieratica con la testa a forma circolare, forse sormontata da una sorta di copricapo. L’antropomorfo in basso a destra è di tipo schematico, ma in linea di massima ripete gli stessi simboli delle pietre precedenti, ossia postura ieratica, tronco eretto, gambe divaricate e copricapo.

Le statuine femminili del Gravettiano ed Epigravettiano

In Italia abbiamo la più alta concentrazione in Europa occidentale di statuine del periodo Gravettiano, circa una ventina ritrovate in alcuni siti tra grotte e luoghi all’aperto, di cui più della metà rinvenute nelle grotte dei Balzi Rossi in Liguria, tra Barma Grande e la Grotta del Principe.

Le statuine Paleolitiche italiane

In particolare ai Balzi Rossi sono state trovate nel 1883 le prime due statuine italiane, quella in steatite Gialla denominata la “Venere Gialla[3] e quella denominata la “Dama con il Gozzo”, entrambe rinvenute in un periodo in cui in tutta Europa si cominciava a parlare, in maniera spesso incredula, di arte paleolitica a seguito del rinvenimento nel 1879 delle pitture della Grotta di Altamira in Spagna. Per tale motivo la loro scoperta venne celata per oltre una decade, fino al rinvenimento in Francia della cosiddetta Venere di Brassempouy da parte di Edouard Piette[4] nel 1892 e del ritrovamento nel 1894, sempre a Brassempouy, di ulteriori due statuine, l’Ebauche e la Poire, che portarono finalmente al riconoscimento dell’esistenza di queste statuine femminili datate al Gravettiano.
Le statuine italiane si prestano a confronti iconografici con molte statuine ritrovate nel resto d’Europa, in zone anche molto distanti dall’Italia stessa.

Da sinistra la Venere di Lespugue, la Venere Gialla dei Balzi Rossi, la Venere di Willendorf, la Venere di Kostienki, la Venere di Gagarino, la Venere doppia di Avdeevo (M. Mussi, 2010-2011)

Nell’immagine qui sopra, cominciando da sinistra abbiamo la Venere di Lespugue (ritrovata nel 1922 in una cava vicino Lespugue, ai piedi dei Pirenei, datata a 25.000 anni fa), la Venere Gialla (ritrovata nella Barma Grande dei Balzi Rossi e datata a circa 28.000 anni fa), la Venere di Willendorf (risalente a circa 23-24.000 anni fa, ritrovata vicino Willendorf, nella regione della Wachau; recentemente si è scoperto che la roccia da cui è stata realizzata, l’oolite, viene probabilmente dal Lago di Garda, quindi territorio italiano, a testimonianza dei grandi movimenti delle popolazioni paleolitiche), la Venere di Kostienki (ritrovata in Russia nel 1983, datata al 23-21.000 a.C.), la Venere di Gagarino (in Ucraina, realizzata in avorio di mammuth, datata a circa 28.000 a.C.), la Venere doppia di Avdeevo (enigmatica in quanto composta da due figure unite, una al contrario dell’altra, ritrovata nel 1941 in Russia e datata a 22.500 anni fa). In tutte queste statuine possiamo ritrovare caratteristiche molto simili, una piccola testa con volto liscio proteso in avanti, su collo distinto e spalle strette; seni a formare un’unica massa con l’addome, glutei piatti, gambe che si assottigliano verso il basso, a volte piccole braccia piegate sul ventre sotto al seno (M. Mussi, 2010-2011).

Da sinistra, la Venere di Bracciano, la Venere di Laussel, la Venere di Cussac e la Venere Gialla dei Balzi Rossi (M. Mussi, 2010-2011)

Passando ai dettagli che si ripetono nelle diverse statuine, interessante è il cappuccio costituito da una sorta di appendice triangolare che si sviluppa dal collo alle spalle, visibile nella Venere di Bracciano (scoperta nel 2000 nel Villaggio della Marmotta e datata probabilmente erroneamente al Neolitico per il contesto di ritrovamento, nonostante le fattezze della statuina facciano pensare al paleolitico), nella Venere di Laussel (scolpita in bassorilievo all’ingresso della Grotta di Laussel in Dordogna, datata a circa 20.000 anni fa), sulla figura incisa nella grotta di Cussac (scoperta nel 2000 in Dordogna), caratteristica presente anche nella Venere Gialla dei Balzi Rossi (M. Mussi, 2010-2011).

A sinistra le due statuine di Parabita (ph. E. Visciola) ed al centro la statuina di Alimini in Puglia (ph. E. Ingravallo,2003); a destra la statuina di Parrano in Umbria (ph. L. Filippetti)

Parlando sempre di cappucci, anche se diversi da quelli precedenti, a sinistra le due statuine di Grotta delle Veneri a Parabita e al centro la statuina di Alimini ritrovata in giacitura secondaria nei pressi del lago di Alimini in provincia di Lecce: i volti delle statuine paleolitiche sono sempre coperti, non lasciano intravedere dettagli.
Nel caso della statuina di Parrano in Umbria la testa è fasciata da un copricapo mentre alcune incisioni sul viso segnano gli occhi, il naso e la bocca; un ventre gonfio sembra custodire un feto e al di sotto di esso un simbolo a forma di “V” indica la vulva rappresentata nel momento del parto. Un dettaglio particolare sono le zampe a forma di rana che rimandano alle statuine su pietra verde raffiguranti la dea del parto a forma di rana, indicate da Marija Gimbutas con un simbolismo rigenerativo derivante dal loro ambiente acquatico[5] (M. Gimbutas, 2005). Ritornando in Puglia, regione con tanti esempi di arte Paleolitica, ancora Grotta Romanelli e Grotta Paglicci fanno riferimento all’arte paleolitica più recente del nord Europa, in particolare le silhouette femminili di tipo Gonnersdorf-Lalinde, diffuse in circa 40 siti che vanno dalla regione Cantabrica al Nord della Francia, in Austria, Germania e Polonia, in associazione ad industrie Magdaleniane o più raramente aziliane. Le numerose varianti sono datate ad un periodo compreso tra 11.000 e 12.800 anni fa (in datazione non calibrata) e gli esempi italiani sono tutti racchiusi in questo arco cronologico facente parte del periodo Epigravettiano.

Alcuni esempi di silhouette femminili di tipo Gonnersdorf-Lalinde in Europa (ph. M. Mussi, 2010-2011)

Nell’immagine qui sopra, in alto a sinistra vi è il blocco di Lalinde in Francia sud-occidentale, inciso con figure femminili stilizzate, con la parte superiore aperta e quella inferiore chiusa a punta, senza braccia con a volte un accenno di seno; in basso a sinistra tre esempi di statuine femminili, dalla Francia con la Venere di Courbet (alta 25 mm), dalla Svizzera con il pendaglio di Neuchatel-Monruz (alto 16 mm) e sempre dalla Francia con la Venere di Enval (alta 31 mm); al centro incisa su lastra in ardesia sempre la stessa sagoma stilizzata dal sito di Gonnersdorf in Germania dell’ovest e a destra una statuina a tutto tondo, con i glutei in risalto ed i seni prominenti, sempre da Gonnersdorf.

Le silhouette femminili di tipo Gonnersdorf-Lalinde in Italia (M. Mussi, 2009 – 2012 – 2016)

Passiamo all’Italia, nell’immagine qui sopra a sinistra una piccola incisione di 2 cm. sulla parete di Grotta Romanelli nel sud est della Puglia, datata a circa 10-12.000 anni fa (datazione non calibrata), ricorda le sagome ben note in tutta Europa, con il profilo inclinato verso il davanti, senza testa e con glutei ben marcati. L’incisione in alto al centro ritrae due sagome incise sulle pareti di Grotta di Pozzo in Abruzzo, in un’area del centro Italia datata a 12-13.000 anni fa (datazione non calibrata), con la silhouette ottenuta modificando uno spigolo roccioso naturale. In alto a destra la Statuina di Macomer in Sardegna, alta poco più di 13 cm., realizzata su roccia vulcanica, scoperta in una piccola grotta nel 1949 senza controllo scientifico, motivo per cui la statuina non è datata precisamente, ma le sue caratteristiche fanno propendere per una datazione paleolitica. La testa è stata interpretata quella di un Prolago Sardo (M. Mussi, 2009), un mammifero lagomorfo estinto, endemico del Pleistocene Superiore della Sardegna; la presenza della testa è una caratteristica diversa dallo stile Gonnersdorf-Lalinde classico, ma la forma generale evoca tipicamente questo stile, con le gambe piegate sotto i glutei prominenti, un piccolo busto piatto senza braccia ma con il seno. In basso un ciottolo inciso da Grotta Paglicci in Puglia, nel quale sono rappresentate tre figure principali, di cui quella a sinistra è stata interpretata come la nota sagoma di Gonnersdorf, con la tipica espansione delle natiche e le gambe terminanti a punta; le altre due figure sono estremamente schematiche riempite con motivi a chevrons. Altri dettagli pongono a confronto due statuine dei Balzi Rossi in Liguria con altrettante statuine dal sito di Mal’ta in Siberia; questi due siti sono a migliaia di chilometri di distanza eppure presentano elementi in comune che non possono essere il risultato di convergenze fortuite.

Da sinistra, la Losanga dai Balzi Rossi a confronto con la statuina di Mal’ta in Siberia; a destra la Dama Ocrata dai Balzi Rossi ed un’altra statuina di Mal’ta in Siberia (M. Mussi, 2010-2011)

In particolare, nell’immagine a sinistra un primo confronto può essere tra la statuina in steatite denominata Losanga, proveniente dai Balzi Rossi e la statuina di Mal’ta in Siberia. La parte inferiore del corpo della Losanga, oltre il ventre circolare, è composta da due rigonfiamenti a forma di V che incorniciano il pube dove è incisa la vulva in posizione verticale. Questo stesso elemento a V è presente nella statuina di Mal’ta, anche se il resto del corpo è molto differente. Infatti il busto ha i seni piatti, la testa arrotondata con il viso liscio in posizione eretta incorniciata da una sorta di calotta.
Il dettaglio della testa si ritrova in un’altra statuina in avorio proveniente sempre dai Balzi Rossi, la Dama Ocrata ed una proveniente sempre da Mal’ta, anch’essa in avorio. Le proporzioni sono identiche, così come il viso liscio e verticale, leggermente arrotondato, circondato da una massa di capelli ed il dettaglio identico dei riccioli allungati e ondulati. Ciò che colpisce di questi due esempi sono le similitudini sulle lunghe distanze, testimoniate anche dal movimento delle materie prime; le differenze dell’ambiente naturale che vanno dalle steppe glaciali a quelle delle coste del Mediterraneo, non sembrano influenzare in maniera negativa la diffusione di modelli, simboli, miti e credenze comuni.

Le sepolture femminili

Nella mappa qui sotto sono evidenziati i luoghi di ritrovamento in Italia ed in Europa di alcune delle sepolture femminili di epoca Gravettiana, la cultura paleolitica diffusa da 29.000 a 20.000 anni fa, epoca a cui appartengono gran parte delle più note statuine sopra menzionate.

Alcune sepolture femminili di epoca Gravettiana (ph. A. De Nardis, 2022)

Il principe” di Arene Candide, la donna di Caviglione, la donna di Paglicci, infine Delia, la madre di Ostuni.
Nella mappa è riportata anche la sepoltura detta “la ragazza magdaleniana” rinvenuta in Francia nel rifugio preistorico di Cap Blanc nel quale sono state trovate anche sculture di animali (perlopiù cavalli) risalenti al Magdaleniano, tra 18-17.000 e 11-10.000 anni fa, ossia verso la fine dell’ultima glaciazione. Cap Blanc è uno dei quindici siti preistorici e grotte decorate della valle della Vézère.
La relazione tra queste sepolture è per i corredi funerari e gli oggetti rinvenuti in esse; la cura con la quale il corpo veniva inumato, l’uso rituale dell’ocra rossa, la presenza di oggetti pressoché identici, quali la cuffia realizzata con la stessa tipologia di conchiglie (ad eccezione di Paglicci nella quale è stato trovato sul capo una sorta di diadema di canini di cervo), i monili realizzati con canini di cervo perforati e spesso incisi, gli oggetti litici e infine la morfologia dei luoghi scelti per le sepolture fanno di questi ritrovamenti l’evidenza di una stessa cultura presente in Europa per un lunghissimo lasso di tempo e nel quale il territorio italiano non era affatto differenziato, nonostante la barriera alpina.

Da sinistra: il Principe di Arene Candide (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV) e la donna di Caviglione dalla Liguria, Delia la madre di Ostuni (ph. D. Coppola, 2012) e la donna di Paglicci da Rignano Garganico (ph. A. Palma di Cesnola, 1988), entrambe in Puglia

Questa cultura utilizzava determinati simboli, come il copricapo di conchiglie (dettaglio che ci riporta alle statuine di Willendorf in Austria o di Brassempouy in Francia, solo per citarne alcune), o come l’ocra rossa, altro simbolo tipico dei rituali funerari coevi, a rappresentare il colore del sangue che rigenerava il corpo appena sepolto.
La sepoltura del Principe di Arene Candide, una sepoltura che in termini di notorietà ha superato i confini italiani, è l’unica che allo stato attuale delle indagini è attribuita ad un giovane di circa 15 anni di età, robusto ed alto circa 170 cm., sepolto dopo una morte violenta probabilmente causata dall’aggressione di un orso durante una battuta di caccia, con un colpo inferto alla mandibola ed alla spalla sinistra che infatti sono state asportate. Venne scoperta nel 1942, datata al 26.300 a.C., deposta su un letto di ocra rossa, con un ricco corredo funerario costituito da un copricapo formato da centinaia di conchiglie perforate e canini di cervo, pendenti in avorio di mammut, 4 bastoni traforati in palco d’alce, tre dei quali decorati con sottili striature ed una lama di selce di 23 cm. tenuta nella mano destra. Delle ossa non è mai stata effettuata un’indagine del DNA ma solo un’analisi che ha portato a stabilirne il sesso, che per uno scheletro di adolescente non è immediato garantirne la corretta attribuzione, pertanto non si può dire con certezza assoluta che sia uno scheletro maschile e, se così fosse accertato a seguito di analisi del DNA, sarebbe il primo uomo ad essere sepolto con un corredo tipico di sepolture femminili, come il copricapo fatto di conchiglie e l’ocra rossa sparsa sul piano di deposizione della sepoltura. D’altronde un precedente memorabile è stata la vicenda della “Donna di Caviglione” dei Balzi Rossi, identificata per numerosi anni come appartenente ad uno scheletro maschile, conosciuto come “Uomo di Mentone” e solo dopo indagine del DNA si è potuto appurare con certezza che lo scheletro era quello di una donna.

L’alimentazione dei Paleolitici

Un’ultima curiosità è relativa all’alimentazione dei paleolitici. In Toscana, esattamente in località Bilancino nel Mugello, tra le migliaia di manufatti paleolitici rinvenuti nello scavo è stato scoperto un macinello con annesso pestello; la particolarità è che questi strumenti conservavano tracce di amido risalenti a circa 30.000 anni fa visibili al microscopio ed al carbonio 14. Questa scoperta è stata ulteriormente rafforzata dal ritrovamento all’interno di Grotta Paglicci in Puglia di un pestello di 33.000 anni fa, quindi più antico della macina del Bilancino, su cui sono state trovate tracce di amidi di varie piante selvatiche, in particolare di avena. Dagli studi è emerso che i paleolitici di Grotta Paglicci avevano sviluppato alcune tecnologie per la lavorazione della pianta prima della macinazione; infatti sono state trovate tracce di pretrattamento termico (non si sa se con bollitura, tostatura o arrostimento) al fine di agevolare la macinazione, facilitando così lo scarto del rivestimento esterno dei grani e garantendo una maggiore conservabilità della farina.

La mappa dei rinvenimenti di pestelli preistorici (ph. rielaborazione immagine di https://archeologiavocidalpassato.com/tag/pestello-della-grotta-paglicci/)

Le implicazioni di questa scoperta sono sotto molti aspetti rivoluzionarie”, sottolineano Biancamaria Aranguren della Soprintendenza Archeologica della Toscana e Anna Revedin dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, “… Per la prima volta l’uomo aveva a disposizione un prodotto elaborato facilmente conservabile e trasportabile, ad alto contenuto energetico perché ricco di carboidrati complessi, che permetteva maggiore autonomia soprattutto in momenti critici dal punto di vista climatico e ambientale. La scoperta dimostra inoltre che l’abilità tecnica necessaria per la produzione di farina e quindi per preparare un cibo, gallette o una farinata, era già acquisita in Toscana molto prima della nascita dell’agricoltura nel Neolitico, legata ai cereali, che si sviluppò in Medioriente…”.

Elvira Visciola, novembre-dicembre 2022


Note

[1]“…Luigi Pigorini è intervenuto direttamente o indirettamente, attraverso membri della sua cerchia, per soffocare o discreditare in modo estremamente deciso notizie relative a ritrovamenti attribuibili all’arte paleolitica, sia mobiliare che parietale. Questo avviene a partire dal 1884 quando si cerca di togliere dal circuito scientifico notizie relative alla Venere di Tolentino; e ancora dal 1904 con la ricusazione della presenza a grotta Romanelli di Paleolitico superiore e di qualsiasi espressione artistica ad esso associata. Questa posizione avrà ancora strascichi dopo la sua morte, con la controversia iniziata da Ugo Antonielli, suo successore alla direzione del museo preistorico di Roma, che voleva dimostrare che la Venere di Savignano era da attribuire al Neolitico. A distanza di oltre un secolo va valutato l’impatto di queste posizione nel ritardare lo sviluppo della ricerca…” (M. Mussi – “Luigi Pigorini e l’arte paleolitica in Italia” – in XLVI Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria – Roma 2011).

[2]L’ultima colonia di alche impenni venne attestata su un isola al largo dell’Islanda dove nel 1835 vi erano circa 50 esemplari e l’ultima coppia venne uccisa mentre stava covando un uovo il 3 giugno del 1844, su richiesta di un mercante in cerca di esemplari per il museo.

[3]La statuina è anche il logo del sito di Preistoria in Italia.

[4]Un magistrato collezionista di arte preistorica.

[5]… La vita umana incomincia nel regno acqueo di un utero di donna, così per analogia la dea era la sorgente di tutta la vita, umana, vegetale e animale. Essa regnava su tutte le fonti d’acqua: laghi, fiumi, sorgenti, pozzi e nuvole di pioggia … L’habitat di questi esseri costituiva un’analogia con il liquido amniotico, quel regno acqueo uterino dove ha luogo la rigenerazione … L’arte neolitica ha modellato migliaia di ibridi donna-rana. In molti siti neolitici, gli artigiani scolpivano piccole dee a forma di rana su pietra verde o nera e le ponevano in rilievo sui vasi o sulle pareti dei templi. La presenza della vulva divina accentua la forza rigenerativa di queste immagini … L’immagine della rana e del rospo, insieme con la donna a forma di rana che mostra la vulva, si diffonde lungo un ampio arco di tempo e non solo nel neolitico europeo e anatolico, ma anche nel Medio Oriente, in Cina e nelle Americhe … La concezione di questa immagine può essere ricondotta addirittura al paleolitico superiore, dal momento che ossi con incise donne-rana compaiono nell’era magdaleniana … La dinamica persistenza della dea-rospo fornisce la spiegazione a un’immagine di epoca storica affatto misteriosa: l’“impudica” Sheela na gig che compare su edifici in pietra in Inghilterra, Francia, Irlanda e nel Galles, seduta, nuda, con le gambe di rana spalancate, e con le mani sulla vulva. Queste figure furono scolpite su castelli e chiese tra il dodicesimo e il sedicesimo secolo. Le si possono vedere di solito sulle arcate d’ingresso o sulle pareti delle chiese. Entrambe le mani della Sheela na gig indicano la zona genitale o ne tengono divaricate le labbra. Alcune sculture presentano volti spaventosi o anche teschi di scheletro. La Sheela na gig è ancora molto venerata, ma la sua presenza, è ovvio, è avvolta nel mistero. Non può che essere la discendente dell’antica dea-rana, la grande rigeneratrice…” (Marija Gimbutas – Le dee viventi – Medusa 2005).


Bibliografia

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  2. Dario Sigari, Ilaria Mazzini, Jacopo Conti, Luca Forti, Giuseppe Lembo, Beniamino Mecozzi, Brunella Muttillo e Raffaele Sardella – “Birds and Bovids: new parietal engravings at the Romanelli Cave, Apulia” – in Antiquity – Publications vol. 95, numero 383, ottobre 2021;
  3. Franco Mezzena e Arturo Palma di Cesnola – “Nuove manifestazioni d’arte epigravettiana della Grotta Paglicci nel Gargano” – in Atti della XXVIII Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria – Firenze 1989 – pp. 277-292;
  4. Arturo Palma di Cesnola – Paglicci Rignano Garganico – Regione Puglia, 1988;
  5. Francesco Zorzi – “Pitture parietali e oggetti d’arte mobiliare del Paleolitico scoperti nella grotta Paglicci presso Rignano Garganico” – in Rivista di Scienze Preistoriche – XVII 1962 – pp. 123-137;
  6. Dean R. Snow – Sexual dimorphism in Upper Palaeolithic hand stencils – Antiquity – vol. 80 – pp. 390-404 – 2006;
  7. Dario Sigari – “Review of the animal figures in the Palaeolithic rock art of the Romito Shelter. New discoveries, new data and new perspectives” – in Oxford Journal of Archaeology – settembre 2020;
  8. Jole Marconi Bovio – “Interpretazione dell’arte parietale dell’Addaura” – in Bollettino d’arte – 1953;
  9. Maria Laura Leone – La Fosfenica Grotta dei Cervi. Arte, Mitologia e Religione dei Pittori di Porto Badisco – Ed. Pensiero Preistorico – 2009;
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  11. Giovanni Mannino – “I graffiti parietali preistorici della Grotta Addaura: la scoperta e nuove acquisizioni” – in Atti della XLI Riunione Scientifica – San Cipirello (PA) 16-19 novembre 2006 – Firenze 2012 – pp. 415-422;
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  21. Marija Gimbutas – Le dee viventi – Medusa 2005;
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  23. Margherita Mussi, Pierre Bolduc e Jacques Cinq-Mars – “Le 15 figurine Paleolitiche scoperte da Louis Alexandre Jullien ai Balzi Rossi” – estratto da Origini – Preistoria e Protostoria delle Civiltà antiche – 2004;
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  32. Anna Revedin, Laura Longo, Marta Mariotti Lippi, Emanuele Marconi, Annamaria Ronchitelli, Jiri Svoboda, Eva Anichini, Matilde Gennai e Biancamaria Aranguren – “New technologies for plant food processing in the Gravettian” – in Quaternary International – XXX – 2014;
  33. Biancamaria Aranguren e Anna Revedin – 30.000 fa la prima farina. Alle origini dell’alimentazione – Firenze 2015.
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