Introduzione
di Luciana Percovich
Ci vorranno più di trent’anni perché le mie tesi vengano riconosciute, ripeteva Marija Gimbutas qualche anno prima di morire. Consapevole della portata della sua visione e del suo essere straniera – non solo geograficamente ma culturalmente in un mondo di WASP (White Anglo Saxon Protestant), che aveva conosciuto dall’interno di una delle roccaforti (Harvard) del potere patriarcale indiscusso di “stabilire l’agenda” e decidere cosa conta e cosa no, di cosa poter parlare e di cosa no, di avere accesso ai fondi per farlo o no.
Apparteneva a una generazione di donne apripista, come Mary Daly, Barbara Mc Clintock, Evelyn Fox Keller e molte altre, illustri o meno, che si sono trovate – nel loro caso – a livelli accademici alti e prestigiosi in un momento della storia straordinario, in cui si aprivano crepe verso abissi demonizzati e rimossi in cui altre visioni avevano guidato l’umanità e premevano per tornare a ispirarla. Visioni lungimiranti che oggi forse siamo di nuovo in grado di riconoscere con gratitudine.
Come sito nato dal desiderio di continuare le sue ricerche applicando il suo metodo multidisciplinare, a 30 anni dal 1994 scegliamo di ri-parlare di lei “amata maestra di pensiero e pratica” attraverso i due diversi approcci che seguono.
Ernestine Elster, anche lei archeologa, le è stata vicina per motivi di studio, professionali ed elettivi come forse nessun’altra, se si escludono le persone di famiglia. “Ho partecipato a tutti i suoi scavi; abbiamo trascorso molto tempo insieme, abbiamo viaggiato insieme, abbiamo riso, spezzato il pane e bevuto vino, lavorato da indiavolate e non siamo state sempre d’accordo”, così scrive nel saggio che abbiamo scelto come il più completo, pur nella sua brevità, per far conoscere Marija anche a chi si accosta a lei per la prima volta. “Marija Gimbutas. Stabilire l’agenda” è stato pubblicato nel volume collettaneo Archaeology and Women. Ancient and Modern Issues nel 2007. Dieci anni dopo, era il 2017, come conseguenza dell’imprevedibile sviluppo degli studi sul DNA antico, Colin Renfrew – uno dei più noti archeologhi del ‘900 – ha riconosciuto che MG aveva ragione!
Nel 2019 abbiamo pubblicato qualche passaggio di una comunicazione di Joan Marler, biografa ufficiale di MG, in cui dava notizia del mutato atteggiamento di Colin Renfrew, che aveva duramente combattuto l’ipotesi kurgan. E che, come autore di Archeologia. Teoria, Metodi, Pratica, libro di testo adottato in molti atenei del mondo e anche italiani, nella rassegna di archeologi e archeologhe del ‘900 omette Marija Gimbutas – salvo citarla più volte nel testo per dissentire dalle sue teorie.
Racconta Marler come all’apertura del convegno all’Università di Chicago, in quel dicembre del 2017, intitolato “Marija Gimbutas Memorial Lecture Series”, preso atto delle conferme provenienti dagli studi sul DNA delle popolazioni antiche avviati negli ultimi anni, Renfrew annunciò che dopotutto MG aveva avuto ragione nel collegare la diffusione dei popoli pastori delle steppe alla indo- europeizzazione dell’Antica Europa (il che significò un po’ alla volta fine della millenaria cultura pacifica e matricentrica e inizio in Europa dell’era patriarcale, non ancora estinta).
A questo articolo di Elster, che aggiunge un punto di osservazione privilegiato e in parte inedito anche per chi Marija la conosce e legge da anni, segue una rassegna fotografica sul convegno che l’Associazione Laima organizzò nel maggio del 2014 presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma (e di cui esistono gli Atti).
La galleria fotografica fissa i momenti diversi del convegno, gli interventi dal tavolo delle relatrici/relatori, la mostra delle artiste che si ispirano alla Dea, la performance nell’ampio cortile interno della casa voluta e curata da Morena Luciani e Thuline Andreoli, la Libreria a cura di Sarah Perini e Mirco Horvath, la preziosa quanto indispensabile presenza, abilità e conoscenza dei temi da parte delle traduttrici Valeria Trisoglio, Sara Ramadoro e Cristina Brolowsky, e sullo sfondo la sorridente presenza di Gen Vaughan.
Erano passati 20 anni dal 1994, oggi sono diventati 30 e credo che sia a chi c’era che a chi non c’era questo “come eravamo” comunicherà gioia, passione e senso del cammino fatto e degli spazi immensi ancora da percorrere, dalle nostre radici alle nostre Antenate e Antenati del Futuro!
MARIJA GIMBUTAS. STABILIRE L’AGENDA
di Ernestine Sondheimer Elster
Marija Gimbutas era complicata, carismatica, controversa e l’incarnazione dello slancio vitale. Alla sua morte, avvenuta nel 1994, aveva diretto o co-diretto cinque scavi[1] nell’Europa sud-orientale e pubblicato circa 20 libri e centinaia di articoli e recensioni. È ampiamente riconosciuta come una delle figure più importanti e controverse nello studio del genere e delle donne in archeologia. La sua ricerca ha avuto un ruolo chiave negli studi sulle donne e nel pensiero femminista in generale e le sue idee hanno avuto un impatto ben al di là dei confini del mondo accademico. Inoltre, è riconosciuta come una pioniera nella ricerca della preistoria dell’Europa sudorientale.
Il mio obiettivo è quello di presentare Marija Gimbutas in una prospettiva storica come archeologa attiva nella disciplina in cui aveva intrapreso la ricerca, sfidato le tradizioni e a sua volta era stata sfidata. Sebbene sia andata oltre i confini disciplinari, la mia attenzione si concentra sul suo ruolo nell’archeologia e sul modo in cui ha influenzato il pensiero femminista; altri senza dubbio esamineranno i suoi contributi alla mitologia, al folklore e alla religione[2]. Faccio fatica ad essere una biografa imparziale; è stata la direttrice dei miei studi universitari, poi siamo diventate colleghe all’U.C.L.A. e siamo rimaste amiche fino alla sua morte. Ho partecipato a tutti i suoi scavi; abbiamo trascorso molto tempo insieme, abbiamo viaggiato insieme, abbiamo riso, spezzato il pane e bevuto vino, lavorato da indiavolate e non siamo state sempre d’accordo. Penso a lei come a una mentore calorosa e incoraggiante, ma anche come a una terribile avversaria quando le sue interpretazioni venivano messe in discussione. Non era facile discutere con lei o sollevare dubbi, soprattutto per quanto riguardava il suo “pantheon” di dee e dei preistorici. Per il mio dottorato, scelsi di proposito lo studio tecnico degli utensili in pietra scheggiata come argomento di tesi, piuttosto che qualche aspetto della religione preistorica, come credo si aspettasse. Mi accorsi che era delusa, ma uno studio quantitativo della tecnologia preistorica era un obiettivo che potevo perseguire senza conflitti (Elster 1977).
Questa parziale biografia[3] di Marija Gimbutas nasce dallo studio delle sue pubblicazioni, dalle conversazioni con colleghi e studiosi e dalle loro recensioni, dai miei seminari e note, dalle nostre chiacchierate e dagli eventi di cui sono a conoscenza e/o a cui avevo partecipato negli anni tra il 1965 e il 1994[4]. Per seguire la sua ricerca, ho cercato di “portare alla luce” i percorsi diversi seguiti da Marija, alcuni dei quali hanno trovato una confluenza nei suoi ultimi anni.
Nativa della Lituania, Marija concentrò le sue prime ricerche sul folklore e sull’archeologia lituana e baltica, ma poi si dedicò alla questione più ampia della patria, della dispersione e dell’archeologia dei parlanti il proto-indoeuropeo (indicato come *PIE), che designò come popolo Kurgan.
Tra il 1967 e il 1973 avviò scavi archeologici in siti preistorici in Jugoslavia e in Grecia e iniziò a scrivere sulla “Antica Europa”, intendendo con questo termine l’Europa sudorientale Neolitica e Calcolitica, compresa la Grecia e i Balcani[5]. Riteneva che i popoli che abitavano l’Antica Europa non fossero *PIE nella lingua o nella struttura sociale, ma che avessero sviluppato una propria proto-scrittura e una struttura sociale matrifocale, organizzata attorno a un pantheon di dee e divinità molto antiche, raffigurate in onnipresenti statuette umane di argilla in miniatura. Marija intuì che i cambiamenti osservabili nelle testimonianze archeologiche all’inizio della prima età del bronzo dell’Antica Europa (per esempio, interruzione dell’occupazione, abbandono di un sito, ecc.) erano state causate dalle ‘incursioni’ del popolo PIE Kurgan.
Riteneva che l’incontro di queste due tradizioni avesse trasformato l’Antica Europa e portato alla sua indo-europeizzazione. Parti diverse di questa tesi sono state applaudite, altre accettate con cautela o criticate aspramente nella comunità archeologica. Verso la fine della sua vita, si definì archeo-mitologa, poiché nelle sue ricerche aveva combinato le sue conoscenze dei miti, del folklore e dell’archeologia. Questi diversi fili che sono stati gli interessi della sua vita erano inestricabilmente intrecciati in un unico tessuto fatto di carisma e controversie. I suoi ultimi anni sono stati dedicati alla scrittura, alle conferenze e ad assaporare il riconoscimento popolare che le era arrivato grazie alle sue pubblicazioni sulla Dea, che ebbero un notevole impatto sulla ricerca femminista ma anche sulla cultura popolare.
GLI ANNI DELLA FORMAZIONE
Quando Marija Alseikaite nacque a Vilnius, il 23 gennaio 1921, la Lituania aveva ottenuto l’indipendenza nell’ambito dell’armistizio della prima guerra mondiale del 1918, che aveva posto fine a un secolo di oppressione zarista. Tuttavia, parte del paese, compresa Vilnius, era occupata dalla Polonia. L’indipendenza lituana era sempre stata minacciata dai suoi potenti vicini: Prussia, Polonia e Russia Bianca.
A causa di ciò (o forse nonostante ciò), c’era uno spirito intensamente nazionalista tra gli intellettuali e i professionisti lituani, e la famiglia di Marija partecipava attivamente alla vita politica, scientifica e culturale. Nazionalismo, speranza di autogoverno e promessa democratica facevano parte del patrimonio culturale di Marija. Negli anni successivi, si impegnò costantemente dagli Stati Uniti per la liberazione della Lituania dalla cortina di ferro[6].
Il background di Marija Gimbutas è importante, perché non arrivò negli Stati Uniti come un’immigrata oppressa e desiderosa di abbandonare la propria cultura, ma piuttosto come una persona orgogliosamente legata alle proprie radici. Era cresciuta in una famiglia allargata e privilegiata. I suoi genitori erano medici; sua madre e sua zia erano laureate con il massimo dei voti in Lituania, la prima in medicina/oftalmologia e la seconda (sorella di sua madre) in odontoiatria, ed entrambe furono per lei dei modelli di indipendenza e realizzazione femminile. I genitori di Marija, Veronica e Danielus, collezionavano arte (le case di famiglia erano tappezzate di tessuti, dipinti e sculture); pittori, scultori, musicisti, poeti e scrittori facevano parte della loro cerchia[7]. I racconti delle avventure giovanili di Marija descrivono una ragazza forte, sveglia, realizzata, allenata a non aver paura di nulla e ad aspettarsi il successo su qualsiasi strada avesse scelto. Le istantanee rivelano una bambina carina e con le fossette, dallo sguardo vivace e brillante. Le sue riflessioni personali suggeriscono che imparava facilmente ed era piuttosto contenta[8]. Amava ballare, cavalcare, pattinare, nuotare, andare in bici ed era attratta dalla musica.
C’erano sempre donne di campagna ad aiutare in casa e nelle fattorie dei suoi nonni. Marija racconta di essere cresciuta con una dieta di saggezza popolare, speziata con una buona dose di superstizioni, miti, racconti ma specialmente con i dainos, le canzoni popolari lituane, che adorava.
Anni dopo, Marija scrisse l’introduzione a una raccolta di dainos in cui descrisse come, da studentessa nel 1940 all’Università di Vilnius, avesse fatto un viaggio etnografico nel sud-est della Lituania per registrare i testi dei dainos cantati da un’anziana donna che si ritiene avesse in repertorio circa 300 canzoni (Gimbutas 1964). Queste canzoni erano state trasmesse oralmente di generazione in generazione, cambiando nel tempo. Gli elementi più ripetuti sono le immagini mitologiche, il lavoro contadino, la semina, la mietitura e le riflessioni sulla vita familiare arcaica e patriarcale, che lei definiva come la quintessenza della cultura indo-europea.
Tuttavia la sua “infanzia” terminò con la separazione dei genitori nel 1931. La madre si trasferì con Marija e il fratello a Kaunas, la capitale provvisoria della Lituania libera. La separazione fu dolorosa. Cinque anni dopo morì il padre; Marija mi disse che la sua perdita fu devastante e la spinse a decidere il lavoro della sua vita. Molto influenzata da suo padre, decise infatti di studiare la storia del suo popolo[9]. Ormai quindicenne e studentessa di ginnasio, parlava lituano, polacco e tedesco e studiava il russo. Era un’abile poliglotta e questa sua abilità contribuì a fare di lei negli anni successivi una voce autorevole nel mondo dell’archeologia[10].
A 17 anni, nel 1938, Marija si diplomò al ginnasio di Kaunas ed entrò all’Università di Kaunas dove studiò per due anni, partecipando a scavi di sepolture preistoriche nella regione. Durante questo periodo epocale in Europa, il 1938-39, la Polonia si ritirò dalla Lituania e per un breve periodo Vilnius fu una città “liberata”. Marija si trasferì da Kaunas all’Università di Vilnius[11].
Gli eventi politici si susseguirono rapidamente e con effetti terribili. Nel 1940 la Lituania fu occupata dall’Unione Sovietica; Marija mi raccontava che lei, i membri della sua famiglia e molti amici erano coinvolti nell’opposizione. Ci furono marce, proteste, arresti, morti e sparizioni. Poi, nel 1941, l’avanzata dell’esercito tedesco costrinse i sovietici a ritirarsi. In mezzo a questa confusione politica e al terrore, l’Università continuò a funzionare per un certo periodo. Tra il 1940 e il 1942, la facoltà offriva archeologia baltica, lavoro sul campo in archeologia ed etnografia, lingue, folklore, mitologia, religione antica e linguistica storica (Butrimas 1997). L’interesse di Marija per la lingua lituana, una delle più antiche lingue Indo-europee, fu approfondito con lo studio della linguistica storica. Considerando la sua formazione, non sorprende che sia stata attratta dall’etnologia e dal folklore. Tra le sue prime pubblicazioni ci sono articoli sui costumi popolari degli abitanti dei villaggi della regione di Vilnius. In almeno due delle sue prime monografie, Marija cita le pubblicazioni di Jonas Balys, suo professore di etnologia e folklore e da cui fu fortemente influenzata (Gimbutas 1958: 305; 1963a: 221).
Non c’erano professoresse donna, ma c’erano altre donne che studiavano archeologia[12]. Nel suo percorso verso la vita professionale, i suoi modelli restavano la madre e la zia, che avevano rotto con la tradizione per andare a studiare medicina in Svizzera. Ho l’impressione che, col senno di poi, Marija ritenesse che gli ostacoli più significativi da superare come professionista alle prime armi fossero stati in primo luogo la tempesta e lo sconquasso della Seconda guerra mondiale e, in secondo luogo, l’essere accettata come studiosa e trattata alla pari nella roccaforte maschile dell’Università di Harvard.
Uno dei suoi primi mentori fu il professor Jonas Puzinas dell’Università di Vilnius. Alla sua morte, scrisse un memoriale di apprezzamento per una rivista di Chicago (Gimbutas 1978). In precedenza aveva già riconosciuto il suo debito verso il professore in una monografia in inglese, “il mio primo professore di archeologia, il dottor Jonas Puzinas dell’Università di Vilnius, in Lituania” (Gimbutas 1956b). Il modello di insegnamento della preistoria fu indubbiamente quello di “storia della cultura”, con la sua enfasi su dati, confronti, proposte di influenze, creazione e confronto di cronologie e l’essenzialismo.
Come studentessa, partecipò a scavi cimiteriali e scrisse quello che sembra essere stato il suo primo articolo sulla Lituania preistorica (Gimbutas 1942). Questo periodo deve essere stato particolarmente intenso. Nel 1941 si sposò con il dottor Jurgis Gimbutas, che era assistente senior nella facoltà di materie tecniche della Università di Kaunas. L’anno successivo, Marija si laureò all’Università di Vilnius con una tesi sulle usanze funerarie dell’Età del Ferro in Lituania, basato sulle esperienze di scavi da lei effettuati e su ricerche ulteriori. Dopo la laurea, tornò con il marito a Kaunas e continuò a studiare la preistoria lituana, approfondendo e ampliando le sue ricerche sotto gli spari della Seconda guerra mondiale. Nel giugno 1943 nacque una figlia, Danute. Quell’anno le truppe sovietiche invasero nuovamente la Lituania e i tedeschi si ritirarono; ormai invasione, occupazione, ritirata e poi la loro ripetizione erano uno schema di vita spaventoso e tragicamente familiare in Lituania. Nel 1944 la fuga in occidente con marito e figlia[13]. Attraversarono la Polonia e la Cecoslovacchia e arrivarono a Vienna a metà agosto, viaggiando con ogni tipo di mezzo. A novembre, i disordini a Vienna aumentarono, con raid aerei e scarsità di cibo. Il fratello di Marija li esortò a fuggire a Innsbruck, un altro viaggio straziante. Tuttavia, i lituani di Innsbruck si riunirono per brindare al Giorno dell’Indipendenza (1918) e per esprimere la speranza che la Lituania sarebbe stata presto libera. La conflagrazione europea terminò quell’anno, ma la Lituania dovette aspettare fino al 1990 la liberazione dall’occupazione sovietica!
Con la fine della guerra in Europa, la famiglia Gimbutas si rimise in viaggio. Nella loro odissea, cercarono zone libere e in cui ci fosse cibo disponibile. Andarono prima nel Württemberg, poi fino a Urnau, vicino a Ravensburg e, alla fine dell’estate del 1945, a Tubinga, allora occupata dai francesi. Alla fine trovarono alloggio in un villaggio vicino, Pfullingen, sempre tra i Lituani. Tubinga fu una delle prime università a riaprire dopo la guerra, e questa doveva essere stato un motivo di attrazione. (Kastner e al. 1988).
Marija si immatricolò nell’autunno del 1945 e Peter Goessler, un archeologo le cui ricerche si concentravano sulla Germania sud-occidentale, divenne il suo supervisore. Nell’introduzione alla sua tesi di laurea, Marija lo ringrazia e scrive che a Tubinga c’erano sia la preistoria che gli studi sul Baltico e che ciò le aveva offerto l’opportunità di portare avanti la sua ricerca archeologica[14]. Quando Marija parlava dei suoi studi in Germania, cosa che non accadeva spesso, di solito menzionava l’eccellenza delle biblioteche. Personalità, facoltà o compagni di studio non venivano nominati, almeno in mia presenza[15]. Come madre e moglie di un piccolo nucleo familiare, e dottoranda che sta scrivendo una tesi, aveva poco tempo per socializzare. Tuttavia, frequentò le lezioni di antropologia, storia della religione e archeologia. Nel marzo 1946 discusse la sua tesi sulla preistoria della Lituania e la sua dissertazione fu accettata (Gimbutas 1946). Continuò sempre a Tubinga il lavoro di post-dottorato in archeologia ed etnologia europea e frequentò anche gli Istituti di archeologia di Heidelberg e Monaco. La loro seconda figlia, Zivile, nacque a Tubinga nel 1947; poco dopo, il marito ottenne una borsa di studio presso l’Università Internazionale di Monaco, dove si trasferirono per un certo periodo. Nel 1949 la loro richiesta di venire negli Stati Uniti fu finalmente approvata.
Le sue prime pubblicazioni comprendono schizzi e articoli sul folklore (Gimbutas 1939; 1940a; 1940b). Tra il 1942 e il 1944 seguirono brevi note e articoli più lunghi su diversi aspetti della preistoria in Lituania: sulle credenze, i riti funebri e reperti archeologici, e sui Baltici. (Gimbutas 1943d; 1943e; 1944). Molte opere di questo periodo erano introdotte da sommari in tedesco. Il suo arrivo negli Stati Uniti coincise con l’apparizione di un articolo (Gimbutas 1949) in cui esponeva le sue idee sul legame tra il passato e il presente della Lituania, un approccio che avrebbe affinato nelle sue successive ricerche archeologiche nell’Europa sudorientale.
Era fermamente convinta che lo studio della storia della cultura popolare, della linguistica storica e della mitologia potesse fornire una chiave di lettura della cultura materiale, cioè dell’archeologia e della religione preistorica. Il ragionamento di Marija è esplicito nella sua introduzione a The Green Linden (tiglio verde), (Gimbutas 1964). L’autrice inizia descrivendo la lingua Lituana come una delle più arcaiche lingue Indoeuropee viventi, mettendola in relazione con il Sanscrito e gli inni Vedici. Secondo la sua lettura, mentre altre lingue della famiglia Indoeuropea hanno perso i loro elementi arcaici, questi sono sopravvissuti nel lituano perché geograficamente il paese era lontano dai crocevia delle migrazioni. Il “destino storico” di cui scrive Marija si riferisce al tardo arrivo del cristianesimo, verso la fine del XIV secolo. Cito:
… gli abitanti dei villaggi mantennero la vecchia religione per molti altri secoli. Nel XVI secolo … apparvero i primi catechismi in lituano; ma anche allora, e quasi fino al XX secolo, persistettero credenze e costumi antichi. La religione popolare si è lentamente trasformata in una ‘doppia fede’, poiché il folklore lituano ha mantenuto le sue basi pagane ed è rimasto fedele alle sue profonde radici preistoriche. Da qui i numerosi elementi mitologici presenti nei dainos. In Europa, solo il folklore lituano e lettone può vantare un’antica mitologia vivente con un certo numero di nomi di divinità pagane e altre immagini mitologiche, paragonabili a quelle greche pre-olimpiche, romane, indiane vediche, persiane e dell’antica Scandinavia … I canti mitologici … rappresentano lo strato più antico del dainos … l’immagine del mondo…. La mitologia Baltica è indoeuropea per eccellenza. Le immagini degli dei riflettono l’antica struttura sociale indoeuropea con le sue tre classi fondamentali: quella dei governanti, quella dei guerrieri e quella degli agricoltori. Gli elementi mitologici sono stati trasmessi dal mondo contadino, solo le figure divine legate alla mentalità contadina sono rimaste nel folklore … il sole, la luna, “il tonante” …. (Gimbutas 1964:17). Ho fatto questa lunga citazione perché ritengo che sia stata profondamente influenzata dallo spirito dei dainos e da ciò che lei descriveva come la sua eredità lituana ‘parexcellence’. Le sue idee che mettevano in relazione la mitologia popolare, l’etnologia del suo popolo, la linguistica comparata e storica, l’iconografia, il simbolismo e l’archeologia si fusero nel suo studio su I Baltici (Gimbutas 1963a). Successivamente, applicò questo approccio poliedrico alla comprensione del simbolismo delle statuine, dei segni sulla ceramica e nelle pitture o incisioni su ceramiche provenienti da siti neolitici e calcolitici dei Balcani e della Grecia. Solo verso la fine della sua vita, ispirata forse da Joseph Campbell[16] e dai gruppi della “dea” chiamò questo suo modo di procedere Archeo-mitologia.
GLI ANNI DI HARVARD E UCLA
La famiglia (compresa la suocera di Marija, che era una botanica) arrivò negli Stati Uniti nel marzo del 1949, stabilendosi a Boston. Marija aveva 29 anni, una laurea a Tubinga, una tesi di laurea pubblicata, due dozzine di pubblicazioni sull’archeologia, il folklore e la mitologia del Baltico e della Lituania e considerevoli relazioni con studiosi, biblioteche e centri di ricerca archeologica lituani, austriaci e tedeschi. Il marito, ingegnere, iniziò la sua carriera con poche difficoltà. Marija, invece, svolse una serie di lavori umili fino a quando non fu pronta a presentarsi ad Harvard.
Chi erano i suoi colleghi? Harvard aveva perso tragicamente, a causa della guerra, James Harvey Gaul, un promettente studioso che aveva condotto ricerche sulla Bulgaria preistorica (Gaul 1948); e in precedenza, un altro balcanista, Vladimir Fewkes (Fewkes 1934), era morto prematuramente nel 1941. Entrambi questi studiosi avevano lavorato nella regione che Marija poi chiamerà “Antica Europa”. Tra gli studiosi in residenza c’erano Hugh Hencken, presidente dell’American School of Prehistoric Research, che si interessava a Isole Britanniche, Etruschi, archeologia e linguaggio (Hencken 1955), e Hallam Movius che faceva ricerche sul Paleolitico superiore dell’Europa occidentale. Da quello che raccontava Marija, fece molte traduzioni a beneficio di entrambi[17].
Com’era Harvard per questa giovane donna che vi arrivava a metà del secolo scorso? Posso solo fare supposizioni. Marija descriveva la sua esperienza come una sorta di sfruttamento; altri la ricordano come una donna energica ed esigente. Partiva dal gradino più basso e si arrampicava lentamente, pubblicazione dopo pubblicazione. Dagli accenni che faceva, credo che sentisse lo snobismo della Ivy League, soprattutto come immigrata con un accento straniero che non era né britannico né francese. Harvard alla metà del XX secolo era certamente la quintessenza di una roccaforte maschile; le donne erano accolte nel Club della facoltà solo una volta all’anno, a Natale. Tuttavia, Marija era una donna determinata e ambiziosa, sopravvissuta alle occupazioni repressive straniere della sua patria, che aveva attraversato l’Europa durante la seconda guerra mondiale come sfollata, convivendo con la scarsità di cibo e i raid aerei. E alla Ivy League, dominata dagli uomini, non si sentiva trattata o accettata come un’eguale e, sebbene avesse affrontato la sfida, le difficoltà persistevano.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, effettuò due scavi in Grecia: la prima volta come co-direttrice con Colin Renfrew e con un permesso della British School di Atene. Tuttavia, quando pianificò gli scavi ad Achilleion, non era interessata a richiedere un permesso attraverso la American School of Classical Studies di Atene[18] e scelse invece di lavorare in collaborazione con il Sovrintendente, Dimitrios Theochares.
Tuttavia, la American School of Prehistoric Research del Peabody Museum diede a Marija l’imprimatur di Harvard. Entrando a far parte della Ivy League, incontrò molti studiosi, osservò come funzionava l’accademia e stabilì una rete di colleghi e amici – fra cui l’illustre linguista Roman Jakobson[19]. Così, a metà del secolo scorso, Marija Gimbutas proseguiva il suo percorso in un nuovo paese e in una delle più prestigiose università americane. Rimase ad Harvard per quasi 15 anni; l’ultima figlia, Julie, nacque nel 1954. Pochi anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, Marija pubblicò due articoli in inglese, uno su una rivista lituano-americana sul folklore lituano e l’altro su American Anthropologist (Gimbutas 1952). Quest’ultimo articolo fu importante, perché introdusse le sue idee sull’identificazione archeologica dei parlanti *PIE a un vasto pubblico accademico occidentale. Seguì un articolo revisionato e ampliato per il Proceedings of the Prehistoric Society (Gimbutas 1954), illustrando ampiamente il suo lavoro con le sue caratteristiche mappe piene di frecce.
Nei primi anni Cinquanta (e poi negli anni Sessanta), Marija pubblicò sulla preistoria lituana, sui riti funerari, sulla cultura materiale, sul commercio dell’ambra e su altri argomenti nella Lithuanian Encyclopedia e in altre riviste lituane (cfr. Università di Vilnius 1995; Gimbutas e Jankauskas 2005). In effetti, la sua produzione ha avuto percorsi editoriali paralleli, in lituano e in inglese, fino agli anni ’80, quando i suoi contributi in lituano diminuirono di numero. Pubblicava prima le sue idee in lituano e poi articoli più lunghi in inglese. La maggior parte dei suoi contributi sul folklore, l’arte e il mito sono apparsi prima in riviste lituane. Cinque anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, la carriera editoriale di Marija Gimbutas cominciò ad assumere i contorni di una studiosa internazionale, illustrati da questo breve elenco: Encyclopedia Britannica (Gimbutas 1955a), Archaeology (Gimbutas 1995b), Journal of World History dell’UNESCO (Gimbutas 1996a), recensioni di libri per l’American Journal of Archaeology sul lavoro di archeologi europei (Gimbutas l960a; 1962), Council for Old World Archaeology Surveys and Bibliographies (Gimbutas e Ehrich l 9S7; l 9S9) e di riviste straniere (Gimbutas 1959; 1960b; 1960c).
Durante questo intenso periodo, ricevette sovvenzioni da Bollingen (1953) e Wenner-Gren (1954), che sostennero la sua pubblicazione per il Peabody Museum, la sua prima monografia in lingua inglese, Prehistory of Eastern Europe, Part I: Mesolithic, Neolithic and Copper Age Cultures in Russia and the Baltic Area (1956b). L’anno della pubblicazione fu importante perché partecipò anche a un incontro internazionale, il “Quinto Congresso Internazionale di Antropologia” che si tenne quell’anno a Filadelfia (1-10 settembre). Il suo titolo, “Il cambiamento culturale in Europa all’inizio del secondo millennio a.C.: un contributo al problema Indo-Europeo”, lanciò la sua ipotesi Kurgan (kurgan, parola russa che definisce una sepoltura sotto a un tumulo di terra). L’intensa attività di ricerca di Marija al Peabody, unita a viaggi di studio in Europa e nell’ex URSS per esaminare materiali e assemblaggi presso musei e istituti, incontrare archeologi, recarsi in siti e scavi, fotografare manufatti e partecipare a conferenze, portò alla pubblicazione della monumentale opera Bronze Age Cultures in Central in Eastern Europe (Gimbutas 196Sa). Mentre Prehistory le aveva aperto la strada, Bronze Age Cultures consolidò le sue aspettative per una carriera editoriale assolutamente eccellente. Molte delle più autorevoli fondazioni e agenzie di finanziamento fornirono il loro sostegno: la National Science Foundation (19S6-60 per Bronze Age), l’American Council for Learned Societies (1963 per The Slavs, Gimbutas 1971), l’American Philosophical Society, lo Humanities Endowment, la Samuel H. Kress Foundation, la Ahmanson Foundation e lo Smithsonian Institution. Di Prehistory uscì la seconda edizione e Bronze Age Cultures ebbe il riconoscimento allora e continua a essere una monografia ricca e duratura.
Quando arrivò alla U.C.L.A., tra i suoi incarichi c’erano quelli di Research Fellow del Peabody Museum di Harvard (19S S-63), Fellow del Center for Advanced Study di Stanford (1961-62) e Lecturer del Dipartimento di Antropologia di Harvard (1962-63). Il suo curriculum vitae era quello di una ricercatrice attiva nell’archeologia dei Paesi baltici, dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica. Diventò nota come autrice di un modello dinamico sulla patria, la struttura sociale e l’archeologia dei parlanti il PIE.
Inoltre, aveva scritto e tenuto conferenze sul folklore, la mitologia e il simbolismo baltico e slavo. Il suo matrimonio si era sciolto nel 1963 e nel 1964 si era trasferita a Los Angeles per continuare la sua carriera come ricercatrice e insegnante all’Università della California di Los Angeles. Nella relativa informalità della comunità accademica dell’U.C.L.A., che descriveva come più accessibile e vivace rispetto a quella tedesca o di Harvard, il lavoro di Marija fiorì: in qualità di docente di archeologia europea e studi indoeuropei e, nel 1966, di curatrice dell’Old World Archaeology per il Museo e i Laboratori di Arti e Tecnologie Etniche (ora Fowler Museum of Cultural History), offriva regolarmente corsi e seminari di laurea sull’Europa neolitica e dell’Età del Bronzo, oltre che sul folklore e la mitologia baltica e slava.
Persona carismatica, estremamente popolare tra gli studenti, piena di fascino – generosa, ospitale – si stabilì felicemente nella comunità di Santa Monica Mountain di Topanga con le sue figlie. Ospitava (spesso a casa) studiosi in visita[20] e seminari di studenti, faceva parte di innumerevoli commissioni[21] e comitati editoriali[22]. Insegnava, scriveva e pubblicava letteralmente centinaia di recensioni di libri e articoli e più di una dozzina di monografie e libri, e teneva numerose conferenze[23]. Accettò borse di studio[24], premi e onorificenze[25], partecipò (Gimbutas I970b; 1972a; 1973c; 1974c; 1980b) e organizzò conferenze[26]. Determinata ed energica, Marija Gimbutas pianificò e avviò cinque scavi tra il 1967 e il 1978 e li vide tutti pubblicati, tranne uno, prima che il cancro che le tolse la vita cominciasse a intaccare le sue forze.
GLI SCAVI
Il lavoro sul campo la portò in Europa come professionista e in ogni area rurale lei si sentiva a casa. La mancanza di comodità non la preoccupava e sapeva come raggiungere i suoi obiettivi in qualsiasi condizione. Ogni scavo ha la sua storia, ma la figura 8 presenta le date al radiocarbonio dei suoi cinque scavi e illustra quindi l’impatto che ebbe sul suo pensiero un database che rappresentava 4000 anni di preistoria. Il suo modo di condividere le informazioni era sempre quello di fornire una sintesi informata basata su ciò che considerava essenziale. Con questi dati, si sentiva sicura delle sue conclusioni.
Obre, Bosnia: 1967-69 (Gimbutas 1974a; Benac 1973)
Proprio in concomitanza del suo arrivo all’U.C.L.A., si resero disponibili dei fondi in contropartita[27] gestiti dalla Smithsonian Institution. Dopo alcuni colloqui preliminari con il dottor Alojz Benac durante un viaggio precedente, Marija richiese e ottenne un progetto congiunto con Benac e il Museo Zemalski di Sarajevo. Marija e i suoi studenti arrivarono nell’estate del 1967. Poiché il team dell’U.C.L.A. voleva immagazzinare un certo quantitativo di campioni e Benac non era abituato a questa metodologia (setacciatura, flottazione, ecc.), i co-direttori decisero di aprire due aree separate ma uguali. È interessante confrontare le relazioni (Benac 1973; Gimbutas 1974a). Entrambe sono approfondite e presentano un’enorme mole di dati.
Marija non era un’archeologa “nuova”, ma sapeva cosa stava accadendo nel suo campo e aveva certamente incontrato Lewis Binford, allora professore di Antropologia all’Università della California. Nominò Eugene Sterud, antropologo e archeologo e uno dei suoi studenti laureati con una notevole esperienza sul campo in California e in Europa (e raccomandato da Colin Renfrew), come direttore del campo[28]. Il grande team di Benac aprì un’ampia area, portando alla luce impressionanti resti strutturali che fornirono un quadro importante della pianta del villaggio. L’équipe dell’U.C.L.A. si concentrò su uno scavo di dimensioni più ridotte, ottenendo una stratigrafia accuratamente controllata, campioni per la datazione al radiocarbonio e un assemblaggio quantitativo di vasi, strumenti litici, utensili in osso, insieme a pietre levigate e macinate, nonché campioni zoologici e botanici da analizzare. L’approccio americano permette letteralmente di riempire il quadro con ciò che gli abitanti del villaggio mangiavano, piantavano, pascolavano, cacciavano, raccoglievano, commerciavano, e dei mestieri che venivano praticati e come cambiavano nel tempo. Alla fine, con Eugene Sterud a capo del campo, il suo recupero quantitativo e la sua relazione approfondita (Sterud e Sterud 1974), Marija poté concentrarsi sul tipo di resoconto che sapeva fare così bene: una sintesi descrittiva, approfondita e sicura.
Sitagroi, Drama, Grecia: 1969-70 (Renfrew, Gimbutas e Elster 1986; Elster e Renfrew 2003)
Marija e Colin Renfrew pianificarono insieme lo scavo a Sitagroi durante la visita di quest’ultimo alla UCLA nell’inverno/primavera del 1967, prima che Marija partisse per Obre per aprire la prima stagione di scavo. Colin si trovava allora a Sheffield, ma Marija aveva già visitato il sito (Saliagos) nelle Isole Cicladi dove lui e John Evans stavano scavando (Evans e Renfrew 1968). All’epoca Marija e Colin erano una bella coppia: c’era rispetto reciproco e ammiravano le conoscenze e l’energia dell’altro. Alla UCLA, delinearono e prepararono una domanda alla National Science Foundation per un progetto congiunto Sheffield-UCLA nella Grecia nord-orientale, che all’epoca era più o meno terraincognita[29]. Nel luglio 1968, Colin inaugurò la prima di tre stagioni a Sitagroi (in cui era molto coinvolto), con il sostegno della British School of Archaeology e il finanziamento della National Science Foundation e di fonti britanniche. Marija andò a Sitagroi durante parte delle stagioni di scavo; Colin Renfrew dirigeva le operazioni sia sul campo che in laboratorio.
L’interesse di Marija per le onnipresenti statuette provenienti dai siti Neolitici e Calcolitici della Grecia e dei Balcani fu particolarmente stimolato dal notevole corpus portato alla luce a Sitagroi. Obre non aveva mai restituito nulla di simile. Mentre si trovava a Sitagroi, Renfrew e lei organizzarono un seminario al quale fu invitato Jean Deshayes, direttore dello scavo francese di Dikili Tash, insieme alla sua squadra. Marija parlò delle statuette e della sua interpretazione. Deshayes e i suoi studenti si dimostrarono pensierosi; l’equipe di Sitagroi aveva molte domande e Renfrew era molto scettico. Tuttavia, Marija era certa delle sue interpretazioni ed era entusiasta della ricchezza e della varietà dell’insieme. Il lavoro a Sitagroi si chiuse dopo la stagione di studio del 1970 e con un corpus impressionante di 200 figurine che Marija pubblicò per intero nella monografia dello scavo (Gimbutas 1986b).
Esse costituivano una parte importante della sua tesi sulla religione preistorica introdotta nel suo primo volume sul pantheon dell’Antica Europa (Gimbutas 1974b). Sia Marija che Renfrew avevano l’obiettivo di ottenere il maggior numero possibile di campioni da contesti archeologici chiari per la datazione al radiocarbonio. Le 29 determinazioni furono molte di più di quelle ottenute fino ad allora da qualsiasi altro sito in Europa e portarono a una rivalutazione della cronologia greca e balcanica rispetto a Troia e al Vicino Oriente antico, provocando una mini-rivoluzione di eccitazione, controversia e riconsiderazione (cfr. Renfrew 1973). Il rapporto di scavo, pubblicato in due volumi, fu ben accolto (Cazzella 1984-1987; Chapman 1988; 2004; Grammenos 1988; Hood 1988).
Anza, Stip, Yugoslav Macedonia: 1969-70 (Gimbutas 1976)
Come indica la tabella cronologica (Figura 8), Sitagroi e Obre furono in parte occupati contemporaneamente durante il Neolitico medio, ma il Neolitico antico non era ben rappresentato. Così, quando nell’estate del 1969 fu avviata la seconda stagione a Sitagroi, Marija insieme con Milutin e Draga Garasanin (in collaborazione con il Museo di Stip) erano in attesa di un permesso per aprire un sito del Neolitico antico a sud di Skopje, nella Macedonia jugoslava. Veterani di Obre, Eugene e Anna Sterud lavorarono a Sitagroi per alcune settimane, fino all’arrivo del telegramma di “permesso” quando partirono per raggiungere il resto del gruppo[30]. Tutti alloggiarono nella frazione di Anza, in case del villaggio. Sterud organizzò il lavoro sul campo, come aveva fatto a Obre, e diresse la prima stagione. L’équipe jugoslava, sotto la guida dei Garasanin, stabilì il proprio scavo separato ma uguale. La responsabilità di Sterud nella pubblicazione di Obre era notevole e per questo motivo scelse di non continuare a dirigere il campo durante la seconda stagione di Anza (1970). Marija nominò allora Geoffrey Sayres. Era uno degli studenti di Renfrew a Sheffield che aveva mostrato un forte interesse a studiare con lei negli Stati Uniti. Alla fine, non fu una scelta felice perché, sebbene Sayres fosse molto influenzato dai metodi americani, non aveva un’esperienza pratica sufficiente per uno scavo il cui obiettivo era acquisire un campione quantitativo e raggiungere i livelli più antichi (Starcevo). La seconda stagione procedette a passo di lumaca, Draga Garasanin si spazientì e lo scavo non proseguì per una terza stagione.
Mentre Obre e Sitagroi presentavano importanti occupazioni del Neolitico medio, Anza portò alla luce livelli del primo Neolitico. Il suo corpus di statuette e ceramiche era quindi di particolare interesse per Marija, che ora aveva un arco temporale di quattro millenni su cui lavorare. Con i suoi co-investigatori aveva organizzato un team di ricerca internazionale e interdisciplinare in ogni sito; le analisi di questi tre scavi rivelarono una grande quantità di dati: botanici, zoologici e geologici, oltre a campioni per la datazione al radiocarbonio, tonnellate di ceramica e dati di natura simbolica. Ognuno di questi siti rivelò un modello di sussistenza basato sull’addomesticamento di piante e animali, con artigiani specializzati, commercio o scambio di materie prime e alcuni tipi di caccia e raccolta. Molte classi di ceramica e figurine di umani e animali, sia naturali che schematiche, furono rinvenute in tutti e tre i siti ed erano onnipresenti in due di essi. L’”Antica Europa” era nata (Gimbutas l972b; l973b) ancor prima che venisse mossa una pala di terra ad Achilleion in Tessaglia, che si rivelò essere lo scavo dei sogni di Marija[31].
Achilleion, Farsala, Tessaglia, Grecia: 1973-74 (Gimbutas et al 1989b)
L’Achilleion è una piccola montagna nella pianura orientale della Tessaglia, vicino alla città di Farsala. Il sito era stato analizzato dal Prof. Dimitrios Theochares, Sovrintendente della Tessaglia, e uno dei principali studiosi greci di preistoria dell’epoca. Aveva riportato prove di livelli a-ceramici. Ciò incuriosì Marija perché suggeriva che i livelli più bassi del tumulo contenessero un insediamento pre-ceramico, un Neolitico autoctono. Tuttavia, in nessuno dei pozzi di prova o dei quadrati di scavo questa aspettativa fu soddisfatta. Marija scrisse con franchezza che i primi livelli rappresentavano una “cultura neolitica a tutti gli effetti con ceramica proto-Sesklo” (Gimbutas et al 1989: 2).
Lavorando in sinergia con il Prof. Theochares, l’équipe greco-americana aveva sede nel villaggio di Achilleion, fisicamente adiacente al tumulo. I lavori iniziarono nell’estate del 1973 e proseguirono nel 1974, ma entrambe le stagioni furono interrotte a causa della situazione politica greca: l’invasione turca di Cipro (1973) e il rovesciamento dei colonnelli (1974). Ciononostante, lo scavo di Achilleion rivelò la ricca sequenza di ceramica dipinta di Sesklo, dal Neolitico Antico al Neolitico Medio, oltre a significative testimonianze di architettura e agli onnipresenti strumenti in osso e pietra (molti di ossidiana di Melia, che indicano il commercio o lo scambio con coloro che controllavano questa risorsa sull’isola di Milo). Furono recuperate anche decine di statuette in contesto che Marija pubblicò integralmente nella monografia di scavo (Gimbutas l989b). Da tempo era convinta che la forma e la modellazione non realistica delle teste delle figurine di Vinca rappresentassero maschere facciali (Gimbutas l974d). Tra i reperti di Achilleion ce n’erano diverse che rientravano in questa categoria, tra cui una piccola maschera facciale posta su un supporto. Grazie a queste diverse classi di manufatti e ai notevoli confronti con altri siti crono- logicamente analoghi, ritenne che le sue idee sul pantheon della religione preistorica dell’Antica Europa fossero state confermate.
Grotta Scaloria, Manfredonia, Italia sud-orientale (Gimbutas l 980a; 1981b; Winn e Shimabuku 1980)
L’esplorazione della Grotta Scaloria, nell’Italia sud-orientale, è un progetto che Marija aveva organizzato insieme al Prof. Santo Tinè dell’Università di Genova, che aveva esplorato per la prima volta le due camere nel 1967, quando lavorava con la Soprintendenza Archeologica di Foggia. Gli scavi furono condotti per due estati, nel 1978-79, nell’ambito della spedizione bilaterale (Genova e U.C.L.A.) del Tavoliere.
Il sito è neolitico e considerato estremamente importante. Ci sono due camere separate; nella camera superiore furono recuperate le sepolture di una “necropoli” utilizzata per circa 600 anni (Robb 1991: 115-16); le date al radiocarbonio collocano l’uso della camera superiore alla metà del VI millennio a.C. (Whitehouse 1987; Robb 1991). La camera inferiore è stata descritta come cultuale (Tiné e Isetti 1980; Winn e Shimabuku 1980; Whitehouse 1992) e datata alla metà del V millennio a.C. Tuttavia, sulla base delle date calibrate (Figura 8) e della varietà di ceramica, la grotta potrebbe essere stata utilizzata dal 6500 al 3500 a.C. circa. Sean Winn (all’epoca della University of Southern Mississippi) e Dan Shimabuku (anch’egli laureato all’ U.C.L.A. e all’epoca nella facoltà dell’Università di St Mary’s, Halifax, Nuova Scozia) furono i direttori di campo. Sebbene Marija avesse condotto studi e fotografie a Manfredonia nel 1990 con una decina di persone, la Grotta Scaloria è l’unico scavo che non è riuscita a pubblicare integralmente prima della sua morte; forse si aspettava che Winn e Shimabuku dessero seguito al loro rapporto preliminare (Winn e Shimabuku 1980).
CONTRIBUTO E VALUTAZIONE
La teorizzazione accademica di Marija si è concentrata sui seguenti temi principali: archeologia e linguaggio, identificazione e trasformazione della cultura, religione preistorica. In ciascuno di questi ha portato contributi significativi e, sebbene le sue idee siano state controverse e contestate (ancor più dopo la sua morte), il risultato è stato quello di definire l’agenda in ciascuno di queste aree. I diversi aspetti del suo lascito sono tutti interrelati:
- l’ubicazione della patria dei popoli Kurgan di lingua *PIE e la loro caratterizzazione come patriarcali, pastorali, dediti all’allevamento di cavalli e alla guerra;
- l’identificazione, l’ubicazione e la caratterizzazione dell’Antica Europa come matrifocale, pacifica e agricola;
- l’identificazione del pantheon di dee e dei dell’Antica Europa (che Marija Gimbutas alla fine decise essere paneuropeo e che si estendeva dal Paleolitico superiore alla fine del Calcolitico o del Tardo Neolitico);
- le “incursioni”, le migrazioni o gli spostamenti dei popoli Kurgan verso ovest, come risultava dalla trasformazione o dall’Indo-Europeizzazione dell’Antica Europa.
Proto-indoeuropeo
Per quasi tutta la seconda metà del secolo scorso, dai primi anni Cinquanta agli anni Novanta, Marija pubblicò una serie di articoli e documenti ricchi di dati e intellettualmente provocatori sui parlanti *PIE. In essi, sintetizzò prove provenienti dalla linguistica storica, dall’archeologia, dalla mitologia e dal folklore, per descrivere la struttura sociale di questi popoli e proporre la loro patria e i loro spostamenti (Dexter e Jones-Bley 1997; Gimbutas 1952; 1961; 1963b; 1970a; 1970b; 1973d; 1974e; 1977; 1979; 1980b; 1981a; 1986a)[32]. Collocò l’Urheimat nella regione steppica tra i fiumi Ural e Dniepr della Russia meridionale e definì la loro cultura come patriarcale, pastorale, metallurgica, dedita all’allevamento di cavalli (cfr. Gimbutas l986c e confrontare con Anthony 1986) e bellicosa. Nel corso degli anni non ha mai cambiato questo modello di base, sviluppandolo, ribadendo le sue argomentazioni, elaborando e correggendo i dettagli man mano che apparivano nuovi rapporti sui siti e che si rendevano disponibili le datazioni al radiocarbonio.
È sempre stata molto attenta alla cronologia (Gimbutas 1965a) e ha abbracciato pienamente le tecniche di datazione scientifica, in quanto le fornivano un quadro solido per esaminare i cambiamenti nella documentazione archeologica. Inoltre, si era resa subito conto dell’importanza di ottenere numerose datazioni al carbonio-14 e di incorporare le corrispondenti correzioni e calibrature dendrocronologiche (Gimbutas e al 1976). Dalla metà degli anni Cinquanta in poi, sostenne con forza che la tradizione kurgan era *PIE e, senza grandi contestazioni (ma si veda Hausler 1981; 1985; Schmitt 1974), la sua tesi fu ampiamente accettata per decenni (Birnbaum 1974; Polome 1982). Così, non solo stabilì l’agenda, ma tenne decisamente la parola fino agli anni ’80 quando, nel corso della dozzina di anni successivi e fino ad oggi, archeologi e altri studiosi si fecero avanti per rigiudicare le sue tesi (si veda Mallory 1989 per una rassegna completa di *PIE e archeologia) e/o sfidare e riformulare il dibattito (ad esempio, Anthony 1986; 1990; 1991; 1995; Gamkhrelidze e Ivanov 1985a; 1985b; Renfrew 1987; Sherratt e Sherratt 1988; Zanotti 1990). Marija conosceva molti dei suoi critici e rispose a molte delle recensioni sottolineando dettagliatamente gli errori che rilevava e ribadendo le sue argomentazioni (Gimbutas 1985; 1990). La sua critica più severa riguardava il modello avanzato da Colin Renfrew, che sosteneva che l’Anatolia neolitica fosse la patria da cui i primi agricoltori migrarono in Europa con la loro famiglia linguistica *PIE e le loro piante e animali addomesticati. In occasione di una mia visita personale ai Renfrew, Colin mi consegnò le bozze del suo libro con il commento: “Spero che Marija non si arrabbi”. Comunque, le sue recensioni dimostrarono che lo era. Prima riconobbe con grazia i suoi considerevoli precedenti contributi all’archeologia, sottolineò la sua presentazione elegante e persuasiva e poi si tolse i guanti. (Gimbutas 1988a; 1988b)! Più tardi, negli ultimi anni della sua vita, sembrò considerare tutti i suoi critici archeologi con grande equanimità, perché era passata al suo ultimo, fondamentale interesse, l’archeo-mitologia, e a un nuovo e rispettoso pubblico.
In definitiva, rimase altrettanto sicura della sua tesi *PIE (anzi, di più) di quando per la prima volta aveva combinato l’archeologia preistorica con la linguistica storica. David Anthony, che era stato piuttosto critico nei confronti del suo modello di migrazione degli allevatori di cavalli kurgan (Anthony 1986; 1990; 1991; 1995), commentò (in un messaggio di posta elettronica del 29 gennaio 1998):
“Non lavorerei sul Volga se Marija non avesse fornito l’apertura iniziale che ha reso possibile per un occidentale come me comprendere ed esplorare l’archeologia delle steppe. Ho letto molto attentamente e ripetutamente i suoi lavori precedenti e non dimenticherò mai la prima volta che l’ho incontrata in occasione di una conferenza che tenne alla Penn quando ero un dottorando. Avevo già adottato un atteggiamento un po’ critico nei confronti di alcune sue interpretazioni, in particolare verso i suoi scenari di “ondate” migratorie dalle steppe, ma non ero abbastanza coraggioso da metterla in discussione e lei non mi prestava attenzione. In seguito, naturalmente, ho finito per scrivere articoli sulla migrazione, perché non si può entrare in questo argomento senza considerare il ruolo della migrazione. E non dimenticherò mai quando ci incontrammo di nuovo, in ruoli diversi, quindici anni dopo, in occasione di un istituto estivo del NEH, “The Ancient Indo-European World”, nel 1990 presso l’Università del Texas, ad Austin. Tenne una settimana di lezioni sull’archeologia indoeuropea, e io la settimana dopo feci le lezioni sull’archeologia I.E. Condividemmo una tavola rotonda durante il fine settimana di transizione. Ognuno di noi si era presentato e aveva tenuto un breve discorso sulle proprie opinioni generali, seguito da domande. Il suo punto di vista e il mio differivano in alcuni aspetti critici. Ero un po’ nervoso all’idea di alzarmi e dissentire da lei prima ancora che la mia settimana fosse iniziata, mentre lei era seduta proprio lì, ma andò abbastanza bene. Fummo amichevoli. Poi cercai di dire qualcosa con tono di scusa ma allo stesso tempo fermo, e lei mi afferrò, mi baciò sulle guance e mi disse: “Sono così felice che qualcuno porti avanti il lavoro!” Rimasi sbalordito. Temevo che si sarebbe concentrata sulle nostre differenze, come avevo fatto io, ma ciò che lei aveva visto era solo l’obiettivo comune. Era una persona unica, una grande studiosa. Pochissime persone hanno il coraggio o le conoscenze necessarie per lavorare su una tela così grande come quella che lei ha scelto.”
Opportunamente, al momento del suo pensionamento, gli ex studenti e colleghi di Marija pubblicarono un libro in suo onore (Skomal e Polome 1987). Alcuni anni dopo la sua morte, è stato pubblicato in sua memoria un volume di saggi sulla questione dell’Indoeuropeo (Dexter e Polome 1997). Si è trattato di un tributo appropriato per una persona che ha davvero fissato l’agenda. Il lavoro e la discussione continuano, soprattutto nel Journal of Indo-European Studies, ma anche in altre sedi (Chapman 1998; Demoule 1993) e con i relativi dibattiti, ad esempio, sull’opportunità intellettuale di un “matrimonio” tra archeologia e lingua (cfr. in particolare Blench e Spriggs 1997; Sherratt 1990; Yoffee 1990).
Antica Europa
A partire da prima del 1970, utilizzando i dati di decine di siti preistorici, molti dei quali visitati, esaminando gli assemblaggi di prima mano sul campo, nei musei o negli istituti, e utilizzando i dati dei propri scavi (quando i dati sono diventati disponibili), Marija introdusse la cultura dell’”Antica Europa”, che comprende geograficamente e temporalmente il Neolitico e il Calcolitico dell’Europa sudorientale (Gimbutas 1973b; 1973c; 1974c).
Queste idee furono sintetizzate da ricerche iniziate in Europa e proseguite ad Harvard, Stanford e U.C.L.A. Nelle sue lezioni e nei seminari dell’U.C.L.A. sul Neolitico e sul Calcolitico dell’Europa e del Vicino Oriente abbiamo ascoltato presentazioni sistematiche ed entusiastiche basate sui resoconti dei siti originali (ad esempio, Karanovo, Cucutenyi-Tripolye, Sesklo, Dimini, Haçilar, Çatal Hüyük, Maritsa, Vinca, Predionitsa, Tisza, Hamangia, Gumelnitsa, Serra d’Alto, Coppa Nevigata, Crvena Stjena, ecc.) che riguardano la geografia, l’ubicazione del sito, il sistema insediativo, l’architettura, la tecnologia, l’economia, gli oggetti di culto, gli stili ceramici, ecc. La ceramica di questi siti balcanici e greci, cronologicamente comparabili, comprendeva vasi molto raffinati, con vivaci pitture bicolori o policrome, o riempimenti bianchi che esaltavano i disegni incisi, con tutta evidenza i prodotti di una profonda conoscenza della ceramica. Inoltre in queste raccolte c’erano pintadere, le sempre presenti figurine umane e animali e ornamenti di conchiglie e ossa – manufatti che rappresentano diverse tecnologie e simbolismi. Marija Gimbutas aveva concepito l’Antica Europa come una regione di insediamenti agricoli con un tipo di organizzazione sociale omogenea. Ne aveva osservato la presenza millenaria attraverso i detriti abitativi che si erano accumulati nel tempo, formando i magoulas, i tell, o tumuli descritti in letteratura. Ipotizzò inoltre l’assenza di conflitti, a causa della scarsità di armi identificabili, di insediamenti fortificati, ecc.[33] Mise a confronto vecchi materiali provenienti da scavi noti da decenni con i nuovi insiemi, frutto di ricerche nel nord della Grecia o in altre parti dei Balcani iniziate dopo la seconda guerra mondiale e proseguite con successo. Il concetto di “Antica Europa” è uno dei suoi contributi più originali che, a causa della sua associazione con il controverso pantheon di dei e dee, suscitò un interesse limitato e deve ancora essere valutato in maniera scevra da pregiudizi.
Certamente il concetto di Antica Europa come regione sintetizza e organizza un’enorme quantità di dati provenienti da un numero sconcertante di siti. C’è una evidente rielaborazione nella cultura materiale dal Neolitico al Calcolitico: i siti si espandono e vengono occupati per millenni, la ceramica è più sofisticata, l’addomesticamento di piante e animali sembra più mirato. Sono stati stabiliti partner commerciali (ad esempio, per la selce bruna: Tringham 1984; 2003; per lo spondilo: Nikolaidou 2003; e per l’ossidiana)[34], ed è stata dedotta l’esistenza di artigiani specializzati (Elster 2004; RK Evans 1973). Le lezioni di Marija in quel periodo sembravano sfociare in una pubblicazione sull’Antica Europa e conservo una serie di suoi manoscritti non datati che indicava come scritti in preparazione per questo volume. Contemporaneamente, i suoi scavi procedevano in Jugoslavia e in Grecia e l’immediatezza dei ritrovamenti – fondamentali le figure di Sitagroi scoperte nel 1968-69 e quelle di Achilleion nel 1973-74 – potrebbe aver trasformato la monografia sull’Antica Europa in Gods and Goddesses of Old Europe: 7000-3500 BC (Gimbutas 1974b- traduzione italiana Le Dee e gli Dei dell’Antica Europa. Miti e immagini del culto, 2016).
Il Pantheon dell’Antica Europa
Già prima del suo primo scavo, Marija era profondamente coinvolta nello studio dei vari tipi di figurine e della molteplicità di disegni, marcature e incisioni su vasellame, figurine e pintadere. Scrisse e tenne conferenze sull’importanza della ricerca interdisciplinare, su come lo studio dell’etnologia, della mitologia, della semiotica e della linguistica potessero fornire ispirazione e/o chiavi per comprendere la struttura sociale e il sistema simbolico dell’archeologia preistorica. Quello era il suo modello e lo applicava.
Mentre nomina e identifica le piccole sculture plastiche, umane, animali o entrambe, come rappresentanti di varie dee e dei, in chi legge rimane qualche perplessità perché non espone completamente il percorso che l’ha portata alle sue conclusioni. Pur essendo una poliglotta e una studiosa prodigiosa, nella serie delle dee non ha sempre presentato una spiegazione logica e graduale di come è arrivata alle sue conclusioni. Ciò non toglie nulla alla sua notevole padronanza dei dati e alla sua brillante immaginazione o capacità di sintetizzare e creare un intero pantheon. Tuttavia, dobbiamo accettare questo pantheon sulla base della piena fiducia in lei. Allo stesso modo ha decifrato i vari segni e disegni incisi o dipinti su ceramiche, statuette e sigilli (pintadera) come la proto-scrittura dell’Antica Europa. Il pantheon, la “scrittura”, la natura del sistema di credenze e la sua diffusa influenza diacronica e sincronica sono presentati in modo esauriente in una serie di articoli e volumi riccamente illustrati (Girnbutas 1974b; 1974c; 1982; 1989a; 1989b; 1991; 1999).
All’inizio gli archeologi sembravano ammutoliti quando Girnbutas proponeva le sue interpretazioni audaci e idiosincratiche sul ruolo delle onnipresenti statuette di argilla e della proto-scrittura: segni dipinti o incisi sulla ceramica. Ecco una delle principali, se non la principale studiosa della preistoria dell’Europa sudorientale, che si muove a suo agio in un database voluminoso e internazionale. Era noto il suo grande rispetto per la comunità scientifica, che includeva paleo-zoologi, paleo-botanici, geografi, analisti litici, ecc. che avevano tutti la propria parte nei suoi progetti. Non era una pensatrice “ai margini”, ma un’ottima ricercatrice che stava pubblicando le sue idee sul pantheon preistorico e sul suo ruolo nella religione e nel simbolismo (ad esempio, Gimbutas 1973a; 1974c): un’agenda con la quale i preistorici all’epoca erano molto riluttanti a impegnarsi[35]. Inoltre, la sua visione della preistoria era espressa in una sorta di narrazione. Anche se si trattava di scavi e utilizzava sempre dati concreti (14C, paleozoologia, ecc.), il mondo preistorico veniva presentato in una potente narrazione, completa e indiscutibile.
La tesi finale di Marija propone un modello di lunga durata per la dea, con diffusione geografica dalla Spagna all’Ucraina e da far risalire al Paleolitico, una dea che sta al centro di un sistema di credenze rimasto immutato nei millenni. Quest’ultimo sviluppo non fu ben accolto, perché è difficile accettare una lunga durata in un’area geografica e temporale così ampia e variegata. Similmente a Marek Zvelebil, che propose un sistema di credenze immutabile nel corso dei millenni, osservato in primo luogo nel simbolismo di cacciatori-raccoglitrici preistorici dell’Europa settentrionale (Zvelebil 1993). Le sue prove archeologiche erano i siti scavati nella roccia, gli oggetti scolpiti e il contesto rituale delle sepolture, tutti elementi che egli mette in relazione con un sistema di credenze boreale, intelligibili in base a una analogia con i moderni cacciatori-raccoglitrici della zona circum-boreale. Zvelebil sostiene la sua interpretazione archeologica dei rituali e dell’ideologia sui reperti siberiani e sui dati etnografici del Nord America, tutti appartenenti alla stessa zona boreale. Nel caso di Marija, prima definisce e localizza il suo mondo matrifocale e il suo pantheon in un tempo e in un luogo specifici – l’Antica Europa neolitica e calcolitica – e successivamente estende la portata di quel pantheon indietro nel tempo, fino al Paleolitico, e lo espande a tutta l’Europa. La maggior parte, ma non tutte, delle risposte dal mondo dell’archeologia sono state critiche (ad esempio, prima della sua morte: Fagan 1992; Renfrew 1991; Talalay 1994a; Tringham 1993); ma alcune recensioni sono state positive (Jakar 1993; Phillips 1993). Studiosi della religione preistorica hanno accolto il suo lavoro (Berggren e Harrod 1996), così come molte femministe (Eisler 1987; Gadon 1989; Orenstein 1990).
Trasformazione della cultura
Le idee di Marija Gimbutas sulla trasformazione della cultura sono legate all'”incontro” delle popolazioni *PIE kurgan delle steppe pontico-caspiche con gli autoctoni antico-europei. L’autrice interpreta la cultura di questi ultimi come lentamente e inesorabilmente trasformata dalle continue “incursioni” dei Kurgan, che si spostavano (migravano?) verso ovest alla ricerca di pascoli per i loro cavalli e le loro greggi.
Marija vide due sistemi sociali contrapporsi:
- l’Antica Europa (matriarcato – pacifico – agricolo – dee)
- Kurgan *PIE (patriarcato – guerriero – pastorale – senza dee).
Scrisse che l’incontro di questi due gruppi fu catastrofico per l’Antica Europa. Le sue floride culture calcolitiche furono “distrutte”, e sul loro solco furono gettati i semi della società patriarcale indoeuropea, le lingue, la struttura sociale e la propensione alla guerra, eredità che arriva all’oggi (Gimbutas 1977;1979;1980;1981a). In effetti, la fine del Calcolitico, cioè l’inizio dell’Età del bronzo nell’Antica Europa, presenta un cambiamento nella documentazione materiale: i siti vengono abbandonati, le ceramiche cambiano, le lavorazioni artigianali e le collaborazioni commerciali si interrompono, cambiano i modi di allevare gli animali, eccetera, ma diversi archeologi avanzano teorie in contrasto con quella di Marija. Sebbene la sua sia stata una teoria guida e abbia definito l’agenda, ora è affiancata da molti altri scenari in competizione (ad esempio, Sherratt 1981; Tringham 1990; Zvelebil e Zvelebil 1988).
DISCUSSIONE
Gli archeologi hanno difficoltà ad accettare l’interpretazione di Marija della organizzazione sociale dell’Antica Europa, il pantheon delle dee, la proto-scrittura e la longue durée di questopantheon. Tuttavia, prima delle sue conferenze e pubblicazioni sul pantheon preistorico dell’Antica Europa, le statuette erano già state oggetto di studio (ad esempio, Ucko 1962; 1968), ma il lavoro era stato accolto esclusivamente dalla comunità archeologica. Il massimo dell’ironia, che sembra sfuggire alla maggior parte dei suoi critici, è che Marija ha costretto tutti a occuparsi di questo materiale – anche se dapprima in forma critica – e, ancora una volta, ha stabilito l’agenda. In questo caso, la sua agenda era apparsa in un momento critico della storia sociale, in coincidenza con l’ascesa del pensiero femminista, e le sue idee andarono ben oltre l’archeologia e entrarono nella coscienza popolare dell’epoca. Così, mentre le recensioni degli archeologi al suo primo volume sulla dea (Gimbutas 1974b) uscivano con molta lentezza (Jakar 1993; Phillips 1993) e/o con molte critiche (Fagan 1992; Talalay 1994a; Tringham 1993), con la sua ristampa come Goddesses and Gods (Gimbutas 1982), le idee di Marija si intersecarono sempre più con la cultura popolare, sostenute da gruppi di donne che trovarono nei suoi scritti ciò che cercavano, la prova “scientifica” che una volta Dio era donna e che le donne erano alla guida, o almeno partner alla pari con gli uomini (Eisler 1987). Questa risposta alla sua ricerca fornì agli archeologi la spinta a rispondere in modo critico e soprattutto con ponderatezza (ad esempio, Hutton 1997; Tringham e Conkey 1998; Whitehouse 1998; 2000).
Un problema che viene posto dall’ipotesi sull’organizzazione sociale è che è binaria, con un sistema contrapposto all’altro. Gli/le studiosi/e che criticano una visione androcentrica del mondo non vogliono sostituirla con il suo opposto, un mondo gino-centrico. Chi scrive e ricerca su genere e archeologia non desidera restare nel confine di “lui” e “lei”, ma piuttosto considerare un insieme integrato e completo di uomini, donne, giovani e anziani. Ciò che alcuni archeologi trovano particolarmente irritante è che il modello di Gimbutas, secondo cui il controllo femminile (Antica Europa) è stato rimpiazzato dal controllo maschile (Indoeuropeo), abbia avuto un’enorme influenza. Dal momento che il suo era un nome conosciuto e rispettato anche al di fuori dei circoli archeologici, dato che i sui libri sulla dea sono stati prodotti in modo eccellente e accessibile a un pubblico molto ampio, la sua voce si è posta con autorità (ad esempio, Adams 1992). Ad ogni modo la critica è giusta perché, nella preistoria come nella storia moderna, il controllo sociale e l’assegnazione del potere sono molto più ambigui di quanto si possa pensare affermando che il matriarcato sia stato semplicemente usurpato dal patriarcato. Inoltre, il riconoscimento di questa ambiguità, come sostengono i critici, potrebbe portare allo studio di una preistoria popolata da persone di tutte le età e di tutti i sessi, piuttosto che soltanto due in una dualità di genere.
Le archeologhe femministe hanno particolari problemi con quello che può essere percepito come il dirottamento degli interessi femministi nel passato e il loro imbrigliamento in una interpretazione stretta che, scrivono, è scarsamente sostenuta da prove e problematica nelle sue implicazioni per la teorizzazione femminista (si veda, ad esempio, Conkey e Tringham 1995; Tringham e Conkey 1998; Whitehouse 1998). Oltre al problema, già discusso, di costruire una visione ginocentrica del passato che sarebbe altrettanto distorta di quella androcentrica che cerca di sostituire, per le femministe ci sono anche problemi con la versione della femminilità che l’interpretazione della “dea” offre. In primo luogo, si tratta di una visione unitaria delle donne, in conflitto con gran parte della teorizzazione femminista della terza ondata, che enfatizza le differenze tra le donne tanto quanto le differenze collettive dagli uomini. In secondo luogo, è una visione della donna che si concentra sulla biologia (sessualità, riproduzione e maternità), che storicamente il movimento delle donne si è dedicato a respingere. Certo, nella versione dea, gli aspetti biologici della femminilità sono glorificati e considerati come fonte di potere, il che può essere certamente meglio della versione androcentrica, che li vede come limitanti e fonte di debolezza. Ciononostante, la maggior parte delle femministe, comprese le archeologhe femministe (e le studiose di altri campi; si veda Eller 2000), sarebbero riluttanti a tornare a una concezione delle donne definite principalmente come mogli e madri, anche se ciò consente loro di essere dee. Credo che queste critiche siano molto importanti, ma ciò che emerge è anche una certa rabbia per il rifiuto di Marija di fare marcia indietro o di vedere la sua “ostinazione” sulle dee (Meskell 1995). Critiche e critici scalpitavano, perché non vedeva che non stava portando avanti la causa del femminismo, ma lei non ha mai affermato di essere femminista. È come criticare Harriet Boyd Hawes perché nel 1910 indossava un corsetto e un cappello durante gli scavi in Grecia. Marija Gimbutas è un prodotto della sua generazione e delle sue esperienze; aspettarsi che si adattasse a un cambiamento del pensiero sociale che ha richiesto decenni per essere adottato e compreso (si veda l’importante discussione in Brown 1993) è assurdo.
I principali archeologi oggi non accettano l’archeo-mitologia dei suoi ultimi anni; trovano inquietante che abbia permesso che le sue idee venissero utilizzate da alcune frange del movimento eco-femminista (“Gaia”). Tuttavia, Marija era in un certo senso paradossale: quando gli archeologi non erano d’accordo con lei, non solo li riteneva in errore, ma li considerava anche colpevoli di gelosia personale. Un’interpretazione così preoccupata delle critiche la rendeva vulnerabile, e credo sia stato difficile per lei rifiutare l’entusiasmo e il sostegno[36], e persino l’adorazione, dei gruppi della “dea” (ad esempio, Gadon 1989; Orenstein 1990). Si sono sviluppati diversi approcci teorici e metodologici e dibattiti intellettuali, all’interno della disciplina durante gli anni da lei trascorsi all’U.C.L.A.[37] che hanno influenzato la pratica dell’archeologia: la “nuova” archeologia, il processualismo, il post-processuaIismo, il marxismo, lo strutturalismo, il femminismo, ma hanno influenzato il pensiero di Marija Gimbutas solo marginalmente.
Non c’erano argomenti alternativi abbastanza potenti da convincerla a cambiare il suo modello. In un certo senso, il suo sviluppo intellettuale è stato plasmato dal suo retaggio lituano e dalla sua formazione europea e non è stato molto influenzato dalle correnti teoriche che si sono susseguite nell’ultima metà del secolo[38]. È stata un modello di riferimento e ha ispirato molte donne che hanno toccato la sua vita (ad esempio, Dexter 1990), ma non è mai stata attratta dall’attivismo femminista. Era riuscita a costruirsi una vita indipendente e non poteva immaginare di marciare per qualcosa che non fosse l’indipendenza della sua amata Lituania. La sua morte provocò il nascere di un vero e proprio filone virtuale: commemorazioni nei giornali (ad esempio, Renfrew 1994) e nelle riviste scientifiche (ad esempio, Elster 1994; Skomal 1994); una commemorazione all’U.C.L.A., ospitata dall’Istituto di Archeologia, di Studi Indoeuropei e di Studi Slavi; e, in Lituania, uno straordinario funerale di Stato di due giorni, tenutosi a Vilnius e a Kaunas. La città di Kaunas ha rinominato una strada principale in suo onore. Nell’autunno del 1997, si è tenuta una conferenza a Santa Barbara[39] per onorare il suo lavoro con i gruppi della dea, e la University of California Press sta pubblicando postumo un volume curato dei suoi ultimi scritti (Gimbutas [con Dexter] 1999). Più di recente, un film-video sulla sua vita, prodotto e girato da una documentarista canadese, è stato presentato in anteprima a una conferenza tenutasi all’U.C.L.A., co-sponsorizzata dal Center for the Study of Women dell’U.C.L.A.[40].
In una recensione di un volume di articoli che discutono i contributi archeologici di V. Gordon Childe, Chris Gosden si riferisce alle critiche rivolte a Childe dopo la sua morte come “discussioni con i fantasmi”; afferma che “nessuno può giungere a conclusioni definitive o facili sul lavoro o sulla persona” e che questo “significherà che entrambi saranno discussi per gli anni a venire” (Gosden 1995). Queste osservazioni sono calzanti anche per il dibattito sul lavoro di Gimbutas. Negli articoli critici che ho letto, gli autori non riconoscono Marija come una loro “antenata intellettuale”. Ma lei lo è veramente, nel movimento storico-culturale della seconda metà del secolo scorso e come archeologa che ha stabilito l’agenda nel mondo occidentale per il dibattito sulla terra d’origine e sui movimenti dei parlanti *PIE. Sintetizzando la ricca banca dati dei suoi scavi con la sua prodigiosa conoscenza dell’archeologia neolitica e calcolitica dell’Europa orientale, dei Balcani e della Grecia, ha potuto definire la regione “Antica Europa” con la sua religione, economia e organizzazione sociale rimaste intatte per circa tre millenni. Ha presentato il sistema di credenze e dell’organizzazione sociale dell’Antica Europa come matrifocale e pacifica, ruotante attorno a un pantheon di dee e déi della fertilità e della rigenerazione. Questo non ha solo fissato l’agenda, ma ha costretto la disciplina a prendere in seria considerazione una classe di manufatti che fino ad allora era stata considerata come appartenente al ‘culto’ e che è rimasta impenetrabile fino a quando la cultura popolare non ha iniziato a celebrare le scoperte di Gimbutas.
Alla fine, gli archeologi hanno reagito con notevole disappunto (Fagan 1992; Talalay 1994a; Conkey e Tringham 1995), ma più recentemente – mentre scrivo sono passati dieci anni dalla morte di Marija Gimbutas – con grande interesse (es. delineando la storia degli scritti sulla dea; Hutton 1997) e con importanti lavori che propongono differenti approcci allo studio (Chapman 2000; specialmente Lesure 2002) e alle interpretazioni del ruolo delle figurine dell’Antica Europa (Bailey 1994; Kokkinidou e Nikolaidou 1997; Talalay 1994b).
Marija Gimbutas è stata una innovatrice e una apripista; le grandi idee che ha avanzato hanno dato vita a un impulso e a un’agenda che hanno generato intense ricerche e la pubblicazione di importanti volumi. E non c’è dubbio che il suo fantasma abbia lasciato un’ombra lunga e profonda.
RINGRAZIAMENTI
La dottoressa Zivile Gimbutas, seconda figlia di Marija, mi ha aiutata in modo particolare sulle questioni riguardanti la prima fase della vita di Marija e le sono molto grata. Tre studiose europee, Almut Schulke, Sibylle Kastner e Viola Maier avevano intervistato Marija nel 1993 a Wiesbaden, in Germania, sugli anni trascorsi all’Università di Tubingen. Con l’aiuto di Cornelius Holtdorf, le ho contattate e hanno condiviso con me il loro articolo in pre-pubblicazione. Il riferimento completo è riportato di seguito e le ringrazio per la loro generosità. Ho discusso questo articolo con molti colleghi: Peter Bogucki, Shelby Brown, Joan Carothers, Lloyd Cotsen, Karlene Jones-Bley, Miriam Robbins-Dexter, Marianna Nikolaidou, James Sackett, Barbara Voytek e Dean Worth, e apprezzo i loro commenti e le loro intuizioni, che si sono rivelate preziose. Gli errori, naturalmente, sono tutti miei.
NOTE
[1] Gli scavi e le date sono: Obre, Bosnia, 1967-68; Anza, Macedonia Jugoslava, 1969-70; Sitagroi, Grecia, 1968-70; Achilleion, Grecia, 1973-74; Grotta Scaloria, Italia, 1978-79.
[2] Ad esempio, il suo lavoro ha ispirato gli studiosi di religione preistorica: Abrahamson 1997; Berggren e Harrod 1996; Van Leuven 1993.
[3] Una biografia “parziale”, o “archeologica”, perché anche se parlo della sua infanzia e della sua istruzione, toccando brevemente il matrimonio, i figli e il divorzio, mi concentro essenzialmente sulla sua carriera. Gran parte di ciò che so dei primi anni di Marija deriva dalle nostre conversazioni nei 30 anni di conoscenza. Tuttavia, da quando ho iniziato questo articolo, ho avuto l’opportunità, di cui sono molto grata, di confrontarmi con sua figlia, la dottoressa Zivile Gimbutas, docente di Letterature Comparate. È stata molto generosa, condividendo fotografie personali, permettendomi di accedere agli ultimi dati che Marija aveva preparato e guidandomi nell’ortografia lituana dei titoli e sono molto in debito con lei. Tutti gli errori o le incongruenze sono solo miei.
[4] Tra le bibliografie consultate: Università di Vilnius 1995 (la bibliografia completa di Marija Gimbutas pubblicata un anno dopo la sua morte dall’Università di Vilnius); Marler 1997. Particolarmente utili sono stati Skomal e Polome 1987; Dexter e Jones- Bley 1997, che contiene articoli selezionati di Marija Gimbutas dal 1952 al 1993; Dexter e Polome 1997; si veda anche Z. Gimbutas e K. Jankauskas (2005).
[5] I miei appunti delle lezioni di Marija dei primi anni Settanta includono una prima menzione all’Antica Europa; cfr. Gimbutas 1972; 1973a; 1973b; 1973c.
[6] Già nel 1960 fu premiata dalla Camera di Commercio di Boston e dal World Refugee Committee come “Outstanding New American” per i suoi sforzi nel pubblicizzare la situazione della Lituania sotto i sovietici; nel 1990 la Lituania fu la prima Repubblica sovietica a dichiarare l’indipendenza.
[7] Nel 1966, una mostra e un catalogo, “Lithuanian Folk Art”, furono presentati al Museum and Laboratories of Ethnic Arts and Technology dell’U.C.L.A., per il quale Marija ricopriva il ruolo di Curatrice dell’Archeologia del Mondo Antico. Nella prefazione al catalogo, Marija scrisse: “Mia madre, la dottoressa Veronika Alseikiene, che ora vive a Kaunas, in Lituania, è riuscita a raccogliere questo gruppo rappresentativo di sculture popolari”, tutte donate da Marija alle collezioni del Fowler Museum of Cultural History dell’U.C.L.A., dove tuttora si trovano.
[8] Una volta mi disse che in qualche modo i suoi genitori erano sempre soddisfatti dei suoi sforzi, ma suo fratello Vytautas, di otto anni più grande di lei, era spesso nei guai! Prima della sua morte, avvenuta nel 2002, era molto impegnato nell’Archivio Marija Gimbutas dell’Università di Vilnius.
[9] A posteriori, ha riconosciuto l’influenza di entrambi i genitori (note personali, 31 maggio 1977).
[10] Il Prof. Merrick Posnansky (U.C.L.A.) era uno studente di Cambridge negli anni ’50 quando Gordon Childe teneva lezioni sull’archeologia dell’Europa orientale; Childe una volta disse ai suoi studenti che Marija Gimbutas era l’unica studiosa che sapeva leggere tutte le lingue dei Balcani (comunicazione personale del 24 febbraio 2004).
[11] Nel 1992 l’Università di Vilnius conferì a Marija una laurea honoris causa, che lei ha commentato come un meraviglioso, commovente “ritorno a casa”.
[12] Zivile Gimbutas mi ha spiegato che alcuni compagni di corso di Marija all’università si occupano del suo memoriale in Lituania, tra cui la decana della preistoria lituana, R. Rimantiene (cfr. “The Neolithic of the Eastern Baltic”, Journal of World Prehistory 6 (1992), 97-143).
[13] Marija mi aveva descritto la loro partenza e Zivile Gimbutas mi ha confermato questa descrizione del viaggio dei suoi genitori attraverso l’Europa devastata dalla guerra. Furono aiutati nel loro cammino da una sorta di catena lituana sotterranea: enclavi di Lituani lungo il percorso, alcuni dei quali erano già fuggiti dalla prima occupazione sovietica. Si veda anche Milisauskas 2002.
[14] Ringrazio il Prof. W. Kimmig per la sua pronta risposta alle mie domande sul periodo in cui lui e Marija erano studenti a Tubinga (corrispondenza del 19 ottobre 1997).
[15] Era stata intervistata da tre studenti di Tubinga in occasione di una mostra in onore del suo lavoro al Museo delle Donne di Wiesbaden. Scrivono (Kastner et al 1998) che sembrava soddisfatta del loro interesse per gli anni trascorsi a Tubinga e ricordavano quattro compagni di studi: Gunther Smolla, Franz Fischer, Siegfried Junghans e Eva-Maria Bosset. Quest’ultima è inclusa insieme a Marija Gimbutas nel loro articolo, dove apprendiamo che sia Smolla che Fischer hanno intrapreso la carriera accademica; Fischer è diventato il successore di Kimmig a Tubinga.
[16] Campbell e Gimbutas erano stati in contatto epistolare negli ultimi anni della sua vita. Campbell ha scritto la prefazione (Campbell 1989) a Gimbutas 1989a; era molto favorevole al suo lavoro e la esortò a inviare i suoi documenti per l’archiviazione al Pacifica Graduate Institute, Carpenteria, California, dove erano archiviati anche i suoi documenti.
[17] Hugh Hencken (1995) scrive nella sua introduzione, “la dottoressa Marija Gimbutas ha dato grande assistenza sul piano archeologico …”.
[18] Nell’esprimere privatamente il suo parere, ho capito che pensava che il progetto sarebbe stato rifiutato o non selezionato in modo tempestivo. Riteneva che l’American School of Classical Studies fosse dominata dalla Ivy League e operasse come un club chiuso interessato ai siti classici piuttosto che alla preistoria, tranne che a Creta, e all’epoca probabilmente aveva ragione. Quando chiesi, tramite l’American School, il permesso di studiare i materiali di scavo di Achilleion, era scettica, e poi sorpresa, ma soddisfatta quando il permesso fu ottenuto.
[19] Il Prof. Dean Worth di Studi Slavi, U.C.L.A., mi raccontò che il suo ex professore ad Harvard, l’illustre studioso Roman Jakobson, gli aveva telefonato a proposito di Marija Gimbutas, esortando l’U.C.L.A. a reclutarla per un posto; il resto è storia.
[20] Per esempio, Glyn Daniel, Colin e Jane Renfrew, Inghilterra; Sandor Bokonyi, Janos Nemeskeri, Ungheria; Michael Herity, Irlanda; Lili Kaeles, Svezia, ecc. I suoi amici erano spesso suoi colleghi: Nemeskeri analizzò i resti degli scheletri umani a Obre; Bokonyi riferì sulla componente faunistica di ciascuno dei suoi siti.
[21] Marija Gimbutas e Giorgio Buccellati (Department of Near Eastern Languages and Cultures) presiedevano il comitato dell’U.C.L.A. per la creazione dell’Interdepartmental Graduate Program (IGP) in Archeologia e dell’Istituto di Archeologia. Vide la nascita del Programma nel 1971 e dell’Istituto di Archeologia nel 1973 e sarebbe stata felice di vedere i due uniti nel 1995, appena un anno dopo la sua morte.
[22] È stata fondatrice del Journal of Indo-European Studies (JIES), che è una ricca fonte per continuare la ricerca su questo argomento; membro dei comitati di redazione della Quarterly Review of Archaeology e della serie Monumenta Archeologica dell’U.C.L.A.; presidente dell’Association for Advancement of Baltic Studies (1980-82); membro onorario eletto dell’Accademia lituana delle scienze e dell’Associazione Lituana degli archeologi (1991).
[23] È stata, ad esempio, Charles Eliot Norton Lecturer per l’Archaeological Institute of America nel 1966 e di nuovo nel 1975-77; ha tenuto conferenze in 17 diversi college e università in tutti gli Stati Uniti e in Canada, oltre ad essere stata invitata in Europa presso università e istituti (ad esempio, Paesi Bassi, Germania, Francia e Svezia).
[24] Ad esempio, Center for Advanced Studies, Stanford (1961-63); Netherlands Institute of Advanced Study, Wassenaar (1973-74); e Fulbright (1981).
[25] LA Times Woman of the Year (1968); dottorato onorario, Institute of Integral Studies, San Francisco (1988); mostra “Language of the Goddess” allestita in suo onore, Women’s Museum, Wiesbaden, Germania (1993); premio Annisfield-Wolf per The Civilization of the Goddess (1993).
[26] Ad esempio, la Conferenza internazionale sui Balcani, U.C.L.A., 23-28 ottobre 1969 (Gimbutas 1972a); la Conferenza internazionale multidisciplinare sulla “Trasformazione della cultura europea e anatolica 4500-2500 a.C. e la sua eredità”, Dubrovnik, 12-17 settembre 1979 (Gimbutas 1980b; 1981a).
[27] Questi fondi statunitensi erano stati congelati nei Paesi dell’Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale ed erano disponibili su richiesta al Foreign Currency Program della Smithsonian Institution per vari tipi di ricerca culturale.
[28] In un’e-mail del maggio 2004, il dottor Sterud ha gentilmente inviato i suoi commenti sullo scavo: “Quando la professoressa Gimbutas ha offerto agli archeologi dell’U.C.L.A. l’opportunità di partecipare a scavi congiunti con gli archeologi jugoslavi locali a Obre … non credo che nessuno di noi, compresa Marija, si fosse reso conto delle implicazioni di introdurre metodi sul campo e tecniche perfezionate da archeologi formati in antropologia in un programma di scavi che aveva radici profonde nei metodi e nelle tecniche tradizionali sviluppate nelle prime esplorazioni del Mediterraneo. A posteriori, i due approcci, pur non essendo ben coordinati, hanno prodotto due serie di dati, una “estesa” e l’altra “intensiva”. Le due squadre hanno lavorato bene insieme e quando una squadra ha scoperto qualcosa di insolito, l’altra squadra è stata portata sul luogo per assistere al ritrovamento. Una situazione, tuttavia, è stata controversa … In una parte del sito c’era uno stile di ceramica nei livelli più profondi … con caratteristiche … né del Neolitico antico né del Neolitico medio. L’équipe jugoslava non aveva rinvenuto alcuna ceramica di questo tipo nelle aree in cui stava lavorando all’interno del sito … La mia opinione sulla ragione di questa discrepanza è che Obre … era un insediamento abbastanza grande e ciò che abbiamo sperimentato era una funzione delle differenze orizzontali. La prima fase dell’insediamento, qualunque fosse, non si estendeva all’intero sito. Ci è capitato di scavare in quella porzione di sito dove avevano vissuto i primi occupanti. L’équipe americana ha tratto grande vantaggio da questa opportunità. Gli archeologi jugoslavi e il personale del museo sono stati molto accomodanti e ritengo che abbiano gestito le loro responsabilità nei confronti dei visitatori americani e l’utilizzo dei fondi americani in modo molto lodevole.”
[29] David French (1964) ha inserito il tumulo di Sitagroi nella sua indagine sulla Grecia nord-orientale come Photolivos, ma il villaggio di Sitagroi era in realtà più vicino e ospitò la squadra di scavo nelle case del villaggio. All’inizio degli anni Sessanta, Jean Deshayes e Dimitrios Theochares e le loro squadre avevano iniziato gli scavi di Dikili Tash, un altro sito preistorico nella piana di Drama, a circa 10-15 km a sud di Sitagroi. Non è più una regione sconosciuta dal punto di vista archeologico.
[30] Le dottoresse Judith Rasson e Joan Carpenter, entrambe laureate in antropologia all’U.C.L.A., si erano unite a Sterud da Sitagroi, mentre altri partecipanti incontrarono l’équipe a Skopje o a Stip.
[31] Era un “sogno” nell’ambito delle sue speranze: centinaia di statuette in contesto.
[32] Molte conferenze sono state originariamente proposte in convegni all’estero e poi pubblicate, dando alle sue idee un’ampia visibilità. Dopo l’istituzione del Journal of Indo-European Studies, Gimbutas ha utilizzato questa sede di pubblicazione con maggiore frequenza. Due sue ex allieve, Miriam Robbins Dexter e Karlene Jones-Bley (1997) hanno pubblicato, in ordine cronologico, importanti articoli sui Kurgan, che Marija ha rivisto e curato prima della sua morte, con l’aggiunta di una introduzione.
[33] Recentemente, la cultura “pacifica” dell’Europa preistorica è stata messa seriamente in discussione (Keeley 1996). (Keeley 1996).
[34] L’ossidiana (originaria dell’isola calcidica di Melos) era particolarmente importante tra i materiali grezzi selezionati per gli attrezzi scheggiati in pietra a Achilleion in Tessaglia (Elster 1989).
[35] Il portavoce della “nuova” archeologia, Lewis Binford, che insegnava all’U.C.L.A. (1964-1970), aveva un mantra: “Il mondo è conoscibile e conoscibile nei suoi termini”. Teneva lezioni su metodi testabili di analisi del comportamento, ma era chiaro a noi della sua classe (almeno a chi scrive) che riteneva che non fosse possibile raggiungere la mente delle donne e degli uomini preistorici. Questo limite all’interpretazione archeologica è ormai superato da tempo (Renfrew and Scarre 1998), ma le argomentazioni sono oggi offerte in modo molto diverso.
[36] Interviste con Marija Gimbutas: Intervista alla TV lituana (1992); intervista alla TV baltica (1991); Museo delle donne di Wiesbaden in onore della Gimbutas (1993). Dopo la sua morte continuarono: Seminario, “Il linguaggio della Dea”, Bryggens Museum, Bergen Museum, Università di Bergen (29-30 marzo 1995); Simposio, ‘Segni di civilizzazione, Simposio internazionale sul Sistema Simbolico Neolitico del Sud est dell’Europa’ Novi Sai (25-29 marzo 2004); e articoli popolari, per esempio, sul Los Angeles Times: Watanabe, T (15 ottobre 1998) ‘Cercando il volto femminile di Dio’ e nella sezione Travel, Spano, S (24 settembre 2000), ‘Cercando la Dea intorno al Globo, dall’Irlanda all’India’.
[37] Nel 1967, ad esempio, il corpo docente del Dipartimento di Antropologia comprendeva Lewis Binford e figure importanti nella metodologia e nella pratica come Jim Hill e James Sackett. Quello fu l’anno in cui Marija invitò Colin Renfrew come docente ospite.
[38] Alcuni anni fa, John Chapman e io abbiamo discusso la sua idea che la costruzione della teoria sia stata influenzata dalla sua infanzia idilliaca e dalla brusca sostituzione nei primi anni dell’età adulta con le occupazioni straniere, i ritiri periodici, nuove invasioni, la seconda guerra mondiale, ecc.
[39] La conferenza è stata organizzata presso il Pacific Graduate Institute, dove sono archiviati i documenti di Marija Gimbutas. Si è molto discusso sul fatto che i suoi documenti siano stati conservati lì, invece che all’U.C.L.A., sua sede per 30 anni. L’U.C.L.A. era interessata, ma la sua burocrazia si è mossa lentamente. Inoltre, verso la fine della vita di Marija, mentre i suoi scritti e il suo pensiero si concentravano sempre più sull’archeo-mitologia, ebbe una notevole corrispondenza e contatti con Joseph Campbell, le cui carte erano in fase di deposito presso il Pacific Graduate Institute. Non conosco gli accordi esatti, ma Marija mi disse alcuni mesi prima della sua morte, quando era già costretta a letto, che era certa che il PGI le avrebbe fornito un’assistenza adeguata; l’archivio è intitolato a Joseph Campbell e Marija Gimbutas. Il suo archivio comprende migliaia di diapositive fotografiche, la corrispondenza intercorsa negli anni, i suoi articoli, i manoscritti, le stampe e diversi schedari di stampe di colleghi, oltre alla sua vasta biblioteca. Anche l’Accademia lituana delle scienze ha istituito un archivio Marija Gimbutas (1994) con copie di tutti i suoi lavori. Credo che l’U.C.L.A. fosse stata la sua prima scelta, ma le trattative burocratiche con un grande istituto erano estenuanti e le sue forze erano scarse. La PGI ha semplificato tutti gli accordi e ora conserva il tutto.
[40] Il convegno “Segni fuori dal tempo” si è tenuto all’U.C.L.A. il 18 settembre 2004 ed è stato sponsorizzato dal Women’s Studies Program dell’U.C.L.A. e da due organizzazioni di San Francisco, il California Institute of Integral Studies e il Women’s History Project. Comprendeva un ricevimento, una mostra d’arte, un tavolo di libri e la presentazione da parte di Belili Productions di “Segni fuori da tempo. La storia dell’archeologa Marija Gimbutas”, un documentario di Donna Read e Starhawk, narrato da Olympia Dukakis, che è stato seguito una tavola rotonda con Donna Read, affiancata da Juvile Gimbutas, Miriam Robbins Dexter e Richard Buchen (del Pacifica Institute).
TESTO ORIGINALE CON BIBLIOGRAFIA
Tratto dal libro:
Sue Hamilton, Ruth D. Whitehouse e Katherine I. Wright – Archaeology and women: ancient and modern issues – Left Coast Press – United States of America 2007.
Traduzione Giusi di Crescenzo, ricerca iconografica Elvira Visciola.
La Galleria fotografica che segue è riferita al Convegno “Vent’anni di studi sulla Dea” tenutosi a Roma nel 2014, foto gentilmente concesse dall’autrice Anna Lami e da Laima Associazione Culturale.