All’interno del giacimento di Grotta Paglicci sono stati rinvenuti, nel corso degli scavi dell’Università di Siena sotto la direzione dell’archeologo Arturo Palma di Cesnola, 146 resti ossei umani, oltre alle ben più note sepolture della donna (nota con il codice Pa25) e del bambino (noto con il codice Pa12), queste ultime fra le più antiche in Europa.
La prima ad essere rinvenuta fu la sepoltura del fanciullo durante gli scavi condotti nel settembre 1971 lungo la parete sud-ovest della sala principale della grotta, ad una profondità di circa 8 metri dall’originale piano di calpestio. L’inumato, un soggetto giovane di circa 12-13 anni del tipo Cro-Magnon, di sesso maschile, longilineo e di statura elevata in rapporto all’età (valutata tra 157 e 165 cm.), appariva semplicemente deposto sulla superficie sassosa e ricoperto interamente da uno strato di ocra rossa (ematite polverizzata), disteso in posizione supina con il cranio rivolto a sud-ovest ed i piedi verso nord-est, ossia parallelamente alla parete rocciosa. Il cranio era voltato a destra e appariva poggiato su una pietra di grandi dimensioni, una sorta di poggiatesta; l’avambraccio destro era piegato completamente sul braccio, quello sinistro posto trasversalmente al tronco e gli arti inferiori distesi. Intorno e sopra lo scheletro fu ritrovato un ampio corredo funerario comprendente una “cuffia” formata da denti forati di cervo posta sul cranio, una collana, un braccialetto ed una cavigliera costituiti ciascuno da un dente forato di cervo e una conchiglia di Cypraea, oltre a diversi strumenti di industria litica, tutte caratteristiche che trovano corrispondenze molto evidenti con le sepolture dei Balzi Rossi e con il fanciullo di Arene Candide in Liguria.
Successivamente, nel 1988-89, durante gli scavi diretti sempre da Arturo Palma di Cesnola, emerse la sepoltura di una giovane donna morta ad un’età inferiore ai 25 anni, con uno scheletro molto robusto ed una statura elevata rispetto ai canoni delle popolazioni europee attuali. L’inumata, sempre del tipo Cro-Magnon, giaceva in una fossa profonda, in posizione supina distesa, la testa inserita in una nicchia scavata orizzontalmente e con il cranio inclinato verso sinistra, gli avambracci convergenti verso l’asse mediano del corpo e le mani posate sul pube l’una vicino all’altra, in un atteggiamento che richiama quello delle due statuine di Parabita; degli arti inferiori solo i femori erano in posizione distesa, mentre le ossa delle gambe erano fuori posto per un probabile franamento del terreno. Una curiosità, lo scheletro era posizionato in maniera da lasciare un vuoto alla destra del femore, per un tratto parallelo al corpo, interpretato come spazio idoneo ad ospitare un corredo particolarmente voluminoso o un neonato, di cui però non si sono trovate tracce sicure e ciò ha portato a pensare, nel linguaggio funerario, alla morte di una madre con bambino durante il parto. Lo scheletro era ricoperto di ocra rossa particolarmente concentrata in corrispondenza del cranio, del bacino e dei piedi; all’ocra era aggiunto uno strato calcareo di sostanza bianca, probabilmente il cosiddetto “latte di monte”, ottenuto dal precipitato dell’acqua di grotta. Il corredo funerario era piuttosto semplice se paragonato a quello del fanciullo, costituito da un unico filare composto da sette denti forati di cervo posti sul capo in corrispondenza della sutura coronale, come una sorta di “diadema”; tutti e sette i denti di cervo presentavano la radice forata rivolta in avanti. Oltre a questo vi erano anche alcuni strumenti litici, pochi se raffrontati al corredo di Pa12. Secondo le più recenti ricerche scientifiche l’Homo Sapiens di Grotta Paglicci non sarebbe autoctono, ma avrebbe origini africane e la donna che abitava grotta Paglicci sarebbe una delle madri evolutive dei tanti Homo Sapiens che hanno poi colonizzato l’Europa antica.
Nel settembre 2020, l’Università degli Studi di Siena ha pubblicato sulla rivista “Scientific Reports” i risultati delle analisi condotte sui resti del più antico cane domestico vissuto in Italia, risalente quest’ultimo ad un periodo tra 14.000 e 20.000 anni fa. Nella grotta è stato ritrovato anche un pestello da macinazione con residui di grani di amido; l’analisi dei grani ha rivelato che gli abitanti di Grotta Paglicci raccoglievano chicchi di graminacee selvatiche, con una chiara preferenza per l’avena. Il fatto che i residui derivino da chicchi di graminacee e non da tuberi e radici, osservano i ricercatori, dà molte informazioni sullo stile di vita di quelle popolazioni che, nonostante fossero cacciatori-raccoglitori, avevano iniziato ad utilizzare tecniche per la manipolazione delle risorse vegetali, infatti dai grani ottenevano la farina di avena, risalente a circa 32.000 anni fa.
Note storiche
I primi resti litici ritrovati nei pressi della grotta furono scoperti casualmente da un gruppo di personaggi locali, tra cui uno studente di geologia, attratti in zona dal mistero del tesoro nascosto dal brigante Gabriele Galardi, il quale verso gli anni 60 del XIX secolo si rifugiò nella grotta durante una sommossa brigantesca, nascondendo all’interno tutto il bottino racimolato in svariati anni di rapine ed estorsioni. La voce del ritrovamento della grotta colpì il noto antropologo e paletnologo dell’Università di Padova, Raffaele Battaglia che, nel 1955 si recò sul Gargano e constatata la veridicità della scoperta la segnalò a sua volta. La notizia fu recepita da Francesco Zorzi, direttore all’epoca del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, che nel 1960 fece un sopralluogo insieme al geologo Angelo Pasa, al Prof. dell’Università di Firenze Fiorenzo Mancini, al giovane studente Franco Mezzena e al noto archeologo Arturo Palma di Cesnòla; l’anno seguente si diede inizio alla prima campagna di scavi all’interno dell’atrio della grotta (Zorzi, Pasa e Mezzena) scavi che proseguirono fino al 1963, portando alla luce alcuni resti umani, gli oggetti d’arte graffiti su osso e la saletta delle pitture. Nel 1964 il Prof. Francesco Zorzi venne a mancare, pertanto per un lungo tempo gli scavi furono interrotti mentre il giacimento rimase preda di frugatori clandestini ma soprattutto di un accanito cercatore di tesori, il signor Leonardo Esposito che, convinto dell’esistenza del tesoro seppellito dal brigante, operò una lenta ed indisturbata opera di demolizione del giacimento, facendo ricorrente uso anche di esplosivi. Gli scavi ripresero nella primavera del 1971, ad opera dell’Università di Siena, coordinati dall’archeologo Palma di Cesnòla, con tre campagne di scavi estese al Riparo Esterno e alla prima sala della grotta, scavi che proseguirono fino al 2004. Nel Riparo Esterno è stata messa in luce una importante serie stratigrafica dal Paleolitico inferiore (200-300.000 anni fa), Paleolitico medio (dagli 80 ai 50.000 anni fa), fino al Paleolitico superiore dove è stata rinvenuta la sepoltura della donna sotto ocra, con corredo funebre, la “giovane madre di Paglicci”. Il Riparo Esterno era originariamente sostenuto da un soffitto roccioso, distrutto prima dai cataclismi e poi dal famoso cercatore di tesori con lo sparo di mine, pertanto ora è completamente a cielo aperto; per i ricercatori risulta essere la parte più importante del giacimento, quella che ha fornito i reperti più arcaici.
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