Grotta di Pozzo è un importante sito archeologico del Paleolitico italiano in quanto conserva tracce di frequentazione umana dall’Epigravettiano antico (circa 23.000 anni fa) al Sauveterriano (circa 9.000 anni fa), entrambe le datazioni calibrate al C14; in aree prossime alla superficie sono state rilevate poche tracce risalenti al Neolitico medio, con resti di sepolture sconvolte.
La Grotta, per la sua posizione geografica (al centro dell’Appennino) e per la complessa sequenza stratigrafica emersa si pone come importante punto di riferimento per lo studio delle fasi di ripopolamento dopo l’ultimo Massimo Glaciale fino all’Olocene antico, dando significativi contributi circa l’analisi dell’adattamento umano agli ambienti di montagna delle medie latitudini nel Tardiglaciale. Si trova a circa 720 sul livello del mare, sul versante meridionale del bacino di Avezzano, nel cuore della Marsica, in Abruzzo, in prossimità di un’area che durante gran parte dell’Olocene era occupata dal lago del Fucino, uno dei laghi più grandi dell’Italia Centrale, caratterizzato da forti oscillazioni di livello in funzione delle stagioni e dell’era geologica. Questo lago è stato totalmente prosciugato e bonificato per iniziativa del Duca di Torlonia tra il 1852 ed il 1878 ed oggi l’area è caratterizzata da una grande piana circondata da montagne che superano i 2000 sul livello del mare. La Grotta è una piccola cavità di circa 12 x 3 x 1.50 metri che deve la sua formazione a processi di gelifrazione, di crollo e di erosione delle acque; in particolare, i numerosi crolli prospicienti l’ingresso testimoniano che in passato la grotta era sicuramente più estesa anche perché nella parte più interna sono presenti le più interessanti testimonianze archeologiche di arte parietale che lasciano presagire una maggiore estensione in profondità.
La forma dell’antegrotta è ad emiciclo e termina con una piccola parete verticale di fondo su cui sono stati identificati 4 elementi di arte parietale, a distanza regolare di circa 2-3 metri l’uno dall’altro, a quota pressoché costante:
- Un solco orizzontale lungo 47 mm., largo e profondo circa 5 mm.; si trova nelle vicinanze di una porzione di parete mal conservata, dove presumibilmente dovevano esserci altre incisioni ora perdute;
- Una prima vulva verticale in bassorilievo, alta 9 cm. con un aggetto di circa 15-35 mm., di forma simmetrica con la superficie levigata e tracce di sagomatura tutt’intorno, a triangolo allungato e con un foro centrale nella parete superiore;
- Una seconda vulva verticale alta 5 cm. e larga fino a 6 cm., con un aggetto massimo di 2 cm., ottenuta a partire da una fessura naturale della roccia, di superficie levigata e con tracce di solchi paralleli incisi lateralmente per accentuarne il rilievo;
- Una sagoma femminile stilizzata alta 75 mm., ottenuta a partire da uno spigolo naturale modellato sia per percussione che per abrasione; la figura ha un busto diritto, piatto e verticale, con i glutei pronunciati e le gambe diritte e unite. Questa silhouette femminile rientra nei canoni tipici del Paleolitico superiore finale e corrisponde pienamente al cosiddetto stile Gonnersdorf-Lalinde del quale si evidenziano numerosi altri esempi sia sotto forma di arte parietale (in Italia Grotta Romanelli) che di arte mobiliare (in Italia un ciottolo inciso dal rimaneggiato di Grotta Paglicci, segnalato da Mezzena e Palma di Cesnola), trovati in centinaia di esemplari in oltre 40 siti dell’Europa centro-occidentale, datati al Maddaleniano e meno frequentemente all’Aziliano.
La datazione di questi reperti è stata possibile non solo per il riferimento agli altri esempi in Europa, ma anche grazie alla sequenza stratigrafica ricavata durante gli scavi al sito; in particolare, lo scavo ha evidenziato che i reperti sono tutti ad altezza d’occhio relativamente allo strato datato calibrato tra 16.000 e 14.000 anni fa e pertanto la figura stilizzata di Grotta di Pozzo è da ricollegare alla fase più antica di queste raffigurazioni femminili. Il solco e le vulve si trovano attualmente in piena vista, mentre la silhouette di stile Gonnersdorf è parzialmente nascosta dietro un masso che doveva essere già crollato all’epoca dei livelli dell’Epigravettiano finale; per poterla incidere è stato sicuramente necessario infilarsi nello stretto spazio tra masso e parete operando rannicchiati e pertanto si ha l’impressione che questa posizione appartata non sia casuale, ipotesi avvalorata anche dal fatto che la sagoma è visibile solo in particolari condizioni di luce, quando questa penetra nell’ambiente illuminandolo efficacemente e solo durante poche ore della giornata. L’arte parietale di Grotta di Pozzo con un’iconografia tipicamente femminile così nota Oltralpe, testimonia la circolazione su grandi distanze di idee, culti, miti e credenze religiose diffuse dalla Spagna Cantabrica alla Polonia; l’uso di tecniche, supporti e materie prime diversificate da un luogo all’altro conferma l’esistenza di codici simbolici comuni a queste popolazioni così geograficamente lontane tra loro.
L’area dove sono stati trovati questi reperti è ricca di tracce di attività domestica, con un bacino oblungo e poco profondo di circa 2 metri di diametro e pozzetti di circa 25-50 cm. di diametro, con fondo piatto e pareti dritte, contenenti pietre bruciate, ceneri, rami carbonizzati interpretati come strutture per la cottura, più volte utilizzate per cottura sulla brace o come forni interrati (per una cottura a vapore sulle braci e/o su pietre arroventate) o come fosse di ebollizione (la buca veniva coperta di pelli animali non sgrassate per renderla impermeabile).
Una curiosità è che nella grotta sono stati trovati nei livelli mesolitici numerosi gusci di conchiglie di gasteropodi terrestri integri, da 700 a circa 1500 esemplari; in genere le conchiglie ritrovate nei tipici chiocciolai Algerini presentano un foro circolare nella posizione opposta all’apertura naturale che serviva all’estrazione dell’animale mentre nel caso di Grotta di Pozzo non compare il foro e pertanto, attraverso attività di archeologia sperimentale dell’Università di Roma “La Sapienza” coadiuvata dalla Soprintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma, si è avvalorata l’ipotesi della cottura al vapore per l’estrazione del mollusco senza danneggiarne il guscio.
La fauna cacciata è varia, tipica dei paesaggi di montagna: camoscio, stambecco, cervo, capriolo, cinghiale, idruntino, uro, volpe, tasso, gatto selvatico, marmotte e lepri. Gli ungulati a Grotta di Pozzo rappresentano la maggiore fonte di carne, con evidenti tracce di macellazione e per il recupero di materie prime. Oltre ai mammiferi non mancano resti di uccelli (fagiano di monte) e pesci (trota), quest’ultimi ritrovati in grande numero all’interno della grotta, probabilmente perché qui venivano preparati tagliandone la testa e seccati o affumicati per essere poi trasportati e consumati altrove.
La varietà delle risorse animali sfruttate con le diverse tecniche di caccia durante una o più stagioni dell’anno oltre alle caratteristiche del sito sin qui descritte testimoniano che la grotta, essendo in posizione strategica per controllare i movimenti degli erbivori, è stata abitata a fasi alterne da piccoli gruppi eterogenei di persone; gode di una buona insolazione durante la prima metà della giornata, ha punti d’acqua nelle vicinanze (un torrente che attualmente è attivo solo dopo piogge prolungate) ed è localizzata tra due diversi ambienti, quello della piana con le sue zone umide e quello della mezza montagna, garantendo così l’accesso a molteplici risorse sia per la raccolta che per la caccia.
Nei vari livelli sono stati trovati alcuni manufatti litici con tracce di ocra oltre a frammenti di ocra, un canino di cervo perforato e piccoli manufatti di selce, quest’ultima reperibile a non meno di 30 km in linea d’aria dalla grotta; l’ocra è relativamente frequente su elementi di pietra scheggiata, probabilmente utilizzata come additivo per collanti e mastici per montare i manufatti litici su supporti lignei per fabbricare utensili e strumenti.
L’uso dell’ocra su conchiglie marine (gasteropodi) invece testimonia l’uso di questi elementi come ornamenti personali applicati o cuciti su indumenti.
Un particolare reperto è un unico esemplare di specie Glycimeris rinvenuto durante la campagna di scavi del 2011 nella parte più interna della grotta; l’ornamento, di circa 41 mm. di lunghezza e 5 mm. di larghezza, è costituito da un frammento della conchiglia con profilo a semiluna (probabilmente frutto di un processo antropico di lavorazione) decorato con profonde incisioni a formare 10 raggruppamenti di tacche campite con ocra, per un totale di 49 tacche. L’ornamento è privo di foro di sospensione ed è stato datato in un intervallo di tempo calibrato compreso tra i 12.320 e i 9.370 anni fa.
Il materiale neolitico è composto da pochi frammenti ceramici e manufatti litici datati al Neolitico antico. Sono stati riconosciuti anche i resti di 5 sepolture, 2 di bambini tra i 7 ed i 16 anni di età, 2 corpi femminili di età compresa tra i 20 ed i 25 anni ed un individuo maschile adulto di 40-50 anni.
Note storiche
La grotta è stata scoperta nel 1992, a seguito di attività di ricerca del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università “La Sapienza” di Roma e successivamente scavata sistematicamente con campagne annuali dal 1993 al 2014 sotto la direzione dell’archeologa Margherita Mussi. Le indagini sono state condotte prevalentemente all’interno della grotta, con circa 24 mq di superficie indagata, mentre l’esterno è stato saggiato su una superficie di circa 7 mq. L’arte parietale è stata invece rilevata durante i lavori della campagna 2008-2009, a seguito di un’accurata pulizia della parete dai licheni che si erano accumulati nascondendone la superficie.
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