La Grotta di Cala dei Genovesi, nel versante occidentale dell’isola di Levanzo, è il luogo di ritrovamento di uno degli esempi più rilevanti di arte parietale tardoglaciale dell’intero Mediterraneo, un complesso di arte rupestre paleolitica di notevole valore che la rende un piccolo “santuario”.
Ritroviamo qui due cicli ben distinti, sia artisticamente che cronologicamente: uno inciso e l’altro dipinto.
Le incisioni raffigurano, oltre a diversi animali, alcune figure umane, sulle quali in particolare soffermeremo la nostra attenzione.
Le incisioni riguardanti animali “colpiscono per la semplicità dell’esecuzione, […] ma sono tracciate con una linea abile, sicura e con perfette proporzioni dei corpi, […] rappresentati con vivacità d’espressione e grande varietà di atteggiamenti” (Tusa 1997). L’uro (Bos primigenius) è l’animale più rappresentato (13 esemplari), seguito da 12 esemplari di equidi e 8 cervidi.
Ai piedi della parete di fondo della grotta, in posizione isolata (forse volutamente), troviamo incise tre figure umane spersonalizzate – come spesso accade nelle rappresentazioni antropomorfe dell’arte paleolitica – ma accostate l’una all’altra in una posizione che fa pensare ad una scena di danza. Per l’imprecisione anatomica che le caratterizza e la scarsità di particolari anatomici esse possono ricordare le pitture antropomorfe della regione franco-cantabrica.
La prima figura a sinistra, la più piccola, ha le braccia sollevate in una posizione che è stata interpretata come danzante o come orante; la testa, vista di profilo, sembra avere un becco. Le altre due figure (forse un uomo e una donna) hanno testa cuneiforme, come se indossassero un copricapo o una maschera, e non presentano lineamenti del volto; la figura centrale è la più massiccia, con il corpo marginato da una serie di segmenti, linee incise che partono dal collo (capelli?) e linee a formare una fascia all’altezza della cintura, a separare busto e gambe.
La figura alla destra del terzetto ha, come segni che la distinguono dall’altra, due linee che partono dalla testa, interpretabili forse come un nastro o una ciocca di capelli, e tre linee al braccio che fanno pensare a bracciali. Questa immagine, forse femminile, ha una forma sinuosa che il Graziosi trovò affine ad un altro antropomorfo – stavolta dipinto – anch’esso probabilmente di epoca paleolitica.
Allo stesso ciclo (e datazione) delle incisioni antropomorfe sembra appartenere infatti anche una piccola figura dipinta in ocra rossa, isolata ma non lontana dalle figure graffite, nel tratto terminale della parete destra. Si tratta dell’unico soggetto dipinto in rosso all’interno della grotta e l’unico disegnato in stile naturalistico.
“Essa è disegnata in posizione da trasmettere un effetto prospettico: sembrerebbe sdraiata, con le gambe arcuate ed allargate, il corpo inclinato che dà il senso del rilassamento” (Mannino).
Le figure in nero del ciclo dipinto risalgono invece ad una età compresa tra il neolitico finale e l’eneolitico, quando il mare aveva innalzato il suo livello e diviso l’isoletta dalla terraferma: si tratta di più di un centinaio di antropomorfi, zoomorfi e idoletti, raggruppati in tre diverse aree della grotta ma sempre sulle pareti interne della grotta, completamente al buio.
Nel primo gruppo (sulla parete sinistra in una sorta di fregio continuo) troviamo una ventina di figure in nero tra suini, idoletti, pesci, cani, antropomorfi e un bovide, più una serie di altri segni non facilmente leggibili.
Il secondo gruppo si trova quasi al centro della parte terminale della grotta: si tratta della maggior parte di figure antropomorfe (una ventina), la più grande delle quali ha accanto a sé un cane. Sempre in questo insieme troviamo una decina di idoletti e quello che sembra essere un piccolo pesce.
Il terzo gruppo è sparso sul soffitto della grotta: antropomorfi e altri segni, tra cui una imbarcazione tracciata con le dita sulla roccia decalcificata. Vogliamo soffermare la nostra attenzione in particolare sulle immagini idoliformi di questo secondo ciclo, tra cui alcune del tipo cosiddetto “a violino” definite “di ascendenza cicladica” in quanto estremamente assomiglianti a idoletti di epoca coeva, provenienti dalle isole egee (vedi immagini).
Gli idoletti di Levanzo sono stati messi recentemente in correlazione con un gruppo di figurine in pietra ritrovate nei pressi di un altare del complesso funerario-templare ipogeico sottostante al circolo megalitico di Xaghra a Gozo (Malta).
“Le circostanze del rinvenimento hanno indotto gli scavatori a ritenere plausibile che le sei statuette fossero state racchiuse in un sacchetto di stoffa e riposte nei pressi dell’altare, laddove periodicamente servivano per la conduzione di particolari liturgie pre-inumazione, connesse al culto dei defunti di rango, espletato nell’ipogeo durante la fase di Tarxien (intorno al 3000 a.C.). In altre parole, gli idoletti costituivano il corredo di parafernalia liturgici di un addetto al culto che li teneva da conto in un sacchetto pronto all’uso” (Buccellato et al.).
Gli idoletti sono infatti della misura per essere impugnati e, per la loro forma, anche conficcabili al suolo o in oggetti con cavità. Liturgie con l’uso di “marionette” cultuali sembrano frequenti nella preistoria maltese.
La scoperta delle “marionette” di Xaghra ha fatto riconsiderare le figure idoliformi di Levanzo, tenendo conto anche della convergenza cronologica dei due complessi. Inoltre, non bisogna dimenticare che durante l’acme dell’ultima glaciazione non solo Levanzo e la Sicilia erano collegate da un ponte di terra causato dal basso livello del mare: anche Malta e la Sicilia lo sono state; un contatto anche culturale è più che verosimile.
In due punti delle pitture parietali gli idoletti di Levanzo appaiono in una chiara serie orizzontale, l’uno accanto all’altro; in un terzo punto inframezzati ad immagini di pesci ed altre figure. In tutti e tre i casi si tratta di una serie di cinque idoletti: tre del tipo “a violino” e due cilindrici. Anche se l’ordine degli idoletti cambia nelle tre serie, e non siamo in grado di comprendere se ci sia un significato nell’ordine degli stessi, sembra esserci una chiara intenzionalità nella rappresentazione che non è, evidentemente, casuale. Si è ipotizzato che le tre serie rappresentino il corredo liturgico di una sciamana o uno sciamano, qualcuno addetto a riti “sciamanico-teatrali” rappresentati sulle pareti della grotta e praticati poi con gli idoli reali. Risalenti al medesimo periodo storico, idoli del tutto identici a quelli raffigurati a Levanzo vengono ritrovati a Camaro, Messina, in due esemplari: uno riproducente il tipo “a violino” e l’altro il tipo cilindrico. Questi idoletti, e forse anche i riti ad essi collegati, sono forse di ascendenza esterna all’isola, come sembra suggerire l’iconografia cicladica da un lato, e l’uso di idoli come elementi di rappresentazione liturgica ‘teatrale’ di provenienza maltese. Secondo Tusa, nello specifico, il tipo “a violino” è di chiara discendenza egeo-balcanica e rappresenta l’elemento femminile, mentre il tipo cilindrico è di chiara ascendenza maltese e potrebbe rappresentare l’elemento maschile. Questa ipotesi interpretativa pone la Sicilia all’interno di un vasto areale geografico-culturale che comprende il Mediterraneo centro-orientale da un lato, e Sardegna e Penisola iberica dall’altro.
Note storiche
L’isola di Levanzo ha restituito le prime e più importanti testimonianze di arte rupestre in Sicilia, e tra le più importanti del Mediterraneo. Le incisioni furono scoperte nel 1950 da Paolo Graziosi, A. Micheli e Francesca Minellono durante una campagna di rilevazione delle pitture, di età molto più tarda, scoperte l’anno precedente dalla stessa Minellono. “Nell’autunno del 1949 la signorina Francesca Minellono di Firenze, pittrice, venne all’Istituto di Paletnologia per parlarmi di un ritrovamento da lei fatto, durante l’estate, in una grotta della piccola isola di Levanzo nell’arcipelago delle Egadi […]. Si trattava di una serie di figure dipinte in nero sulle pareti della parte più interna della grotta, della quale essa mi mostrò anche alcuni schizzi da lei stessa eseguiti e che si rivelarono, successivamente, molto fedeli” (Graziosi 1962).
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