Il giacimento di Paglicci è costituito da un riparo sotto roccia e da una grotta attigua risalenti al Paleolitico (inferiore, medio e superiore, quindi databili tra i 500 mila e gli 11 mila anni fa); all’interno sono stati ritrovati ad oggi oltre 45.000 reperti, tra cui due sepolture intere del Paleolitico Superiore, pitture parietali di cavalli in ocra rossa, focolai, graffiti artistici e antropomorfici su ciottoli, ossi e massi, resti di pasti e banchetti, testimonianze di culture religiose arcaiche, tutti elementi che fanno di Paglicci uno dei siti più significativi in Italia per lo studio delle popolazioni paleolitiche.
Le pitture parietali sono state scoperte in una saletta molto interna della grotta e comprendono due cavalli (di cui uno rappresentato in verticale, Fig. 1, e l’altro più grande rappresentato di profilo, Fig. 2) ed una serie di mani. I due cavalli completi sono rappresentati in uno stile arcaico che riprende quello dell’Arte franco-cantabrica, in posizione statica con i ventri voluminosi e rigonfi, tanto da far pensare a delle giumente gravide, di colore rosso intenso. Tra il gruppo di mani (almeno cinque sicuramente riconoscibili), alcune sono “positive”, ossia dipinte per diretta impressione delle mani spalmate di colore, altre sono “negative”, ossia realizzate spruzzando colore attorno ad esse, Fig. 3. Inoltre, è stato rinvenuto un frammento di lastra calcarea dipinto in ocra rossa, delle dimensioni di 22,2×14,3×5,6 cm., raffigurante la parte posteriore di un cavallo in corsa verso destra, Fig. 4; quest’ultimo è stato ritrovato alla base dello strato riferito all’Epigravettiano antico, datato a circa 18.800 – 15.600 anni fa, probabilmente crollato dal soffitto dell’atrio d’ingresso in quanto il lato dipinto ha una superficie liscia e regolare, mentre la faccia opposta e quelle laterali presentano una superficie irregolare causata come da una frattura dal soffitto anticamente dipinto della grotta. Il reperto doveva avere una lunghezza totale di circa 45 cm.
Tra i tanti oggetti d’arte mobiliare rinvenuti all’interno della grotta, il più antico è rappresentato da un frammento di tibia di grande mammifero, delle dimensioni massime di 23,2×6,5 cm., recante una serie di incisioni e datato intorno a 22.000 anni fa su cui è raffigurato uno stambecco visto di profilo, fig. 5. Le proporzioni dell’animale sono perfettamente rispettate con diversi dettagli, come l’occhio con il suo canale lacrimale, le corna dall’ampia incurvatura, l’irta criniera ed il ciuffo di peli all’estremità della coda; al di sopra ed ai lati dell’animale vi sono una serie di linee, alcune con andamento verticale, altre oblique ed altre con un motivo a “chevron”. Lo stambecco di Paglicci e da considerarsi come la più antica manifestazione d’arte paleolitica datata al C14 e finora rinvenuta in Italia; le sue caratteristiche grafiche e stilistiche sono definite arcaiche in quanto i tratti sono semplici e grossolani, nonostante l’effetto finale sia piuttosto naturalistico e alcune parti siano trattate con particolare cura ed eleganza formale (vedi il dettaglio dell’occhio).
Un altro frammento importante, risalente a circa 15.000 anni fa, è inciso su entrambe le facce con figure zoomorfe; da una parte è graffita una vivace scena di caccia, con un cavallo in corsa affiancato prospetticamente da due cervi seguiti da una nube di dardi, fig. 6; sulla faccia opposta è rappresentata la testa di un bue dalle grandi corna protese in avanti, cui si sovrappongono in parte la testa di un altro bovide più piccolo e il profilo di un cerbiatto, fig. 7.
Un altro ciottolo irregolarmente arrotondato, delle dimensioni di 17,6×10,7×6,5 cm., presenta su una faccia una testa di bovide vista di profilo sinistro, con il muso squadrato, naso, occhi e bocca ben delineati e con il corno sinistro proteso in avanti mentre il destro segue l’andamento dell’altro con una linea spezzata. Sulla stessa faccia del ciottolo si sovrappongono altri segni non decifrabili, fig. 8.
Su un altro ciottolo irregolarmente appiattito di colore grigio scuro, delle dimensioni di 12x11x3,1 cm., è stata inserita la figura di un cavallo stante rivolto a sinistra; i maggiori dettagli sono delineati nel capo, con l’occhio ed un orecchio ben delineati, mentre il resto del corpo è sommario e le zampe sono sfumate senza il dettaglio degli zoccoli. Il ventre del cavallo è inciso da circa una decina di frecce, ma quella che desta particolare attenzione è una che penetra sopra l’attacco della zampa anteriore, in direzione del cuore, dettaglio che avvalora l’ipotesi che la funzione di queste raffigurazioni di animali fosse connessa con le pratiche di magia venatoria, fig. 9.
Su un ciottolo appiattito di color giallo ocra, delle dimensioni di 6,3×5,3×1,4 cm., si possono distinguere almeno due fasi di incisioni per la faccia principale: la più antica è costituita da una serie di linee di non facile interpretazione, variamente disposte lungo tutta la superficie del ciottolo, che sembrano determinare la figura di un uccello con il becco (per taluni vi è rappresentato uno stambecco) ed un ampio piumaggio, ma le caratteristiche non permettono di precisare quale specie avicola sia rappresentata; un’ulteriore ipotesi, la successiva fase di incisione invece identifica una testa bovina, forse quella di un toro, vista di profilo con occhio naso e bocca ben delineati. Sulla parte occipitale, vicino alle corna, si nota un profondo segno a V di cui non è chiaro il significato, interpretato con il simbolo di una freccia o di una ferita. Sulla faccia opposta del ciottolo è incisa la testa di un altro bovino, vista sul profilo destro, ma in questo caso l’immagine è fortemente compromessa da una scheggiatura. I lineamenti di questo bovino sembrano molto più delicati, cosa che ha fatto ipotizzare che su questo ciottolo fossero rappresentati su di un lato un bovide di sesso femminile e sull’altro di sesso maschile, fig. 10.
Su un piccolo frammento di coxale sinistro di equide, delle dimensioni di 6×5,1×2,3 cm., si può riconoscere parte della testa di un bovino sul profilo destro, incompleta a causa di recenti rotture. Sono evidenti l’occhio a mandorla, il naso ed il folto pelame indicato da una serie di linee curve consecutive disposte obliquamente; dettaglio curioso sono le corna, rappresentate con una serie di linee sfasate, rivolte in avanti ma con l’apice tornante all’indietro, quasi ad indicare il movimento della testa del bove, fig. 11.
Su un piccolo frammento osseo di scapola sinistra di cervus elaphus, delle dimensioni di 5,5×4,2×0,5 cm., è stata incisa la testa di un cervide, vista sul profilo destro; purtroppo il reperto è stato danneggiato in più punti in epoca recente dai cercatori di tesori, pertanto sono rimaste ben rappresentate le corna, incise in più linee, forse ad indicare una serie corna in prospettiva appartenenti a più animali, fig. 12.
Su un blocco calcareo delle dimensioni di 34x21x12,6 cm., trovato con la faccia incisa rivolta verso il basso, vi sono raffigurati il profilo sinistro di un bovide e di un cervo, entrambi incisi con un tratto molto sottile e leggero, fig. 13.
Su un blocco calcareo delle dimensioni di 27,5×16,9×8,7 cm., trovato con la faccia incisa rivolta verso l’alto, è raffigurato il profilo di un uccello appartenente al genere Alca, molto probabilmente si tratta dell’estinta Alca impennis, delineata con un acuto senso naturalistico nella definizione di particolari inconfondibili quali il becco e la livrea nuziale estiva di questo uccello. Le rappresentazioni di questo uccello nell’arte paleolitica sono molto rare, anche se ultimamente ne è stato ritrovato un esemplare graffito a Grotta Romanelli, entrambi quindi testimonianza della presenza dell’Alca impennis lungo le coste pugliesi, fig. 14.
Molti altri sono i reperti ritrovati all’interno della grotta, alcuni dei quali con incisi motivi geometrici e schematici indecifrabili e taluni con segni che potrebbero essere interpretati come rappresentazioni molto schematizzate della figura femminile, riconoscibile soprattutto dalla caratteristica espansione delle natiche e delle gambe dello stile Gonnersdorf, fig. 15.
Note storiche
I primi resti litici ritrovati nei pressi della grotta furono scoperti casualmente da un gruppo di personaggi locali, tra cui uno studente di geologia, attratti in zona dal mistero del tesoro nascosto dal brigante Gabriele Galardi, il quale verso gli anni 60 del XIX secolo si rifugiò nella grotta durante una sommossa brigantesca, nascondendo all’interno tutto il bottino racimolato in svariati anni di rapine ed estorsioni. La voce del ritrovamento della grotta colpì il noto antropologo e paletnologo dell’Università di Padova, Raffaele Battaglia che, nel 1955 si recò sul Gargano e constatata la veridicità della scoperta la segnalò a sua volta. La notizia fu recepita da Francesco Zorzi, direttore all’epoca del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, che nel 1960 fece un sopralluogo insieme al geologo Angelo Pasa, al Prof. dell’Università di Firenze Fiorenzo Mancini, al giovane studente Franco Mezzena e al noto archeologo Arturo Palma di Cesnòla; l’anno seguente si diede inizio alla prima campagna di scavi all’interno dell’atrio della grotta (Zorzi, Pasa e Mezzena) scavi che proseguirono fino al 1963, portando alla luce alcuni resti umani, gli oggetti d’arte graffiti su osso e la saletta delle pitture. Nel 1964 il Prof. Francesco Zorzi venne a mancare, pertanto per un lungo tempo gli scavi furono interrotti mentre il giacimento rimase preda di frugatori clandestini ma soprattutto di un accanito cercatore di tesori, il signor Leonardo Esposito che, convinto dell’esistenza del tesoro seppellito dal brigante, operò una lenta ed indisturbata opera di demolizione del giacimento, facendo ricorrente uso anche di esplosivi. Gli scavi ripresero nella primavera del 1971, ad opera dell’Università di Siena, coordinati dall’archeologo Palma di Cesnòla, con tre campagne di scavi estese al Riparo Esterno e alla prima sala della grotta, scavi che proseguirono fino al 2004. Nel Riparo Esterno è stata messa in luce una importante serie stratigrafica dal Paleolitico inferiore (200-300.000 anni fa), Paleolitico medio (dagli 80 ai 50.000 anni fa), fino al Paleolitico superiore dove è stata rinvenuta la sepoltura della donna sotto ocra, con corredo funebre, la “giovane madre di Paglicci”. Il Riparo Esterno era originariamente sostenuto da un soffitto roccioso, distrutto prima dai cataclismi e poi dal famoso cercatore di tesori con lo sparo di mine, pertanto ora è completamente a cielo aperto; per i ricercatori risulta essere la parte più importante del giacimento, quella che ha fornito i reperti più arcaici.
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