Dal culto di Valentia Dea a San Valentino: le acque sacre di un ipogeo murato

Dal culto di Valentia Dea a San Valentino: le acque sacre di un ipogeo murato
“Lupercalia”, olio su tela di Camassei (1635), Museo del Prado a Madrid

di Eleonora Ambrusiano

Valentia è una divinità pressoché sconosciuta sebbene il suo nome sia rimasto storicamente ben presente e diffuso nei toponimi diffusi in Umbria nella zona di Terni in particolare (Valenza, quartiere e zona in città e, nella prima periferia, i colli di Valenza, e ancora Collevalenza borgo nei pressi di Todi) e anche in altre zone della penisola italica dalla colonizzazione romana e non solo: troviamo infatti Valenza in Piemonte, in Sardegna, (Vibo) Valentia in Calabria e ancora Valenza nell’antica Gallia Narbonese (oggi Valence) e nella Spagna Tarragonese (oggi Valencia). L’unica attestazione archeologica conosciuta al momento è una dedica iscritta su una base datata al III secolo d.C. posta in un santuario dell’antica Ocriculum (Otricoli), città romana situata nei pressi di una grande ansa del Tevere e dotata di un porto dell’olio, sempre vicino alla città di Terni.

A sinistra la stele di Otricoli e a destra la trascrizione della dedica sulla stele (ph. Q. Palozzi, 2023)

La dedica a Valentia, suggerita da una visione della dea stessa, rappresentava la particolare venerazione di questa divinità probabilmente di origine indigena. Da segnalare anche il ritrovamento presso Torre Maggiore a Terni, di una testa femminile in marmo appartenente ad una statua, e che ci piace pensare fosse proprio la dea Valentia nel luogo del santuario a lei dedicato in antichità.

Resti del tempio di Torre Maggiore di Cesi (ph. dal sito Cesi Porta dell’Umbria)

Nel Dizionario Storico-Mitologico di tutti i popoli edito nel 1829 a cura di Giovanni Pozzoli, Felice Romani e Antonio Seracchi, si legge “Valentia: Dea adorata dai primi abitanti d’Italia. Nome che la latina gioventù diede alla città edificata dagli Aborigeni sul monte Palatino. All’arrivo di Evandro in seguito di quello di Enea in Italia, i Greci che gli accompagnavano, lasciarono alla città tutto il significato del termine, e la chiamarono Roma, che significa la stessa cosa che Valentia, Robur firmitos [forza ferma]” e ancora “Valentia Dea: Sinonimo di Roma Dea. Valentia era propriamente la dea della sanità, sinonimo di Valentina. Essendo stato sostituito il nome di Roma a quello di Valentia, quest’ultimo fu con ogni cura obbliato, né si potea senza delitto pronunciarlo”.
La Dea Valentia sembra quindi fosse adorata dalle popolazioni indigene del centro Italia anche sul colle Palatino, e si tramanda addirittura che questo fosse il nome (o uno dei nomi) antico e segreto della città poi sostituito, per la diffusione pubblica, con quello di Roma; e se il nome segreto e impronunciabile fosse stato questo, anche da ciò si potrebbe spiegare e potrebbe derivare il saluto romano: Vale (Salve, salute).
Consultando un qualsiasi dizionario latino possiamo trovare il sostantivo valentia, derivato dal verbo vălĕo, col significato di forza, vigore, ma anche capacità, facoltà e buona salute; gli ambiti di significato relativi al vigore, ma anche alla potenza-capacità rimandano e ricordano gli attributi della Potnia Theron (Signora delle fiere) e alle dee “farmakìdes” (portatrici di buona salute). Valentia può essere dunque considerata un’antica Dea, Madre delle acque, dell’abbondanza, della fertilità, della sessualità sacra, del raccolto e della guarigione: Dea Multiforme e Totipotente, custode della forza vitale e della nascita, come le più conosciute Bona Dea, di cui troviamo un Lucus Bona Dea nel borgo di Acquaiura a Spoleto, Cupra, alla quale è dedicato il più famoso santuario di Plestia- Colfiorito (Foligno), e Feronia nella Sabina, tutte tra l’altro sempre in zone geografiche limitrofe.
Nella lingua italiana si attesta e mantiene la parola valentia, con ortografia latina, nel solo campo semantico della forza, vigore, coraggio, col significato anche di capacità e bravura.
A Terni, in particolare nella zona della città in cui è sorta la Basilica dedicata a San Valentino patrono, esiste il toponimo Valenza (con cambio ortografico ma medesima pronuncia), quartiere-zona meridionale della città, affatto distante dal centro e che fino a pochi decenni fa era immersa e circondata dal verde lussureggiante di boschetti e vegetazione. Dopo l’edificazione urbana dagli anni ‘50-’60 ne rimangono poche tracce e si mantiene solo il bellissimo parco che prende il nome dalla chiesetta di Santa Maria delle Grazie, il cui nome si deve appunto al ricordo di guarigioni miracolose e ad un’antica fonte sacra e boschetto. Come spesso è stato storicamente attestato, anche la basilica dedicata al santo martire cristiano vescovo Valentino è sorta su edifici preesistenti di sicura origine “pagana”. Nella parte sotterranea, infatti, è presente un antico ipogeo, utilizzato poi in epoca romana come mitreo (cioè un tempio dedicato al dio Mitra), costituito da nove cappellette con volte a botte con annesso altare e sorgenti per le abluzioni rituali e aperto fino agli anni ‘80-’90, con una piccola fonte d’acqua allora ancora attiva: da quel momento -con la scusa di mettere in sicurezza il sito e a causa di contesa competenza tra il Comune, la Diocesi e l’Ordine dei Carmelitani scalzi- gli accessi ai cunicoli sotto la basilica sono stati murati. Per fortuna è ancora disponibile la documentazione fotografica a cura del gruppo di speleologi (Gruppo Grotte Pipistrelli CAI Terni) e architetti che all’epoca si occupò delle esplorazioni.

A sinistra il cunicolo di ingresso all’ipogeo; a destra lo snodo dei corridoi (ph. Speleologo P. Gagliardi)

È possibile quindi a questo punto ipotizzare che i toponimi siano derivati dal nome della Dea Valentia, a cui le città e i luoghi erano dedicati, e da questi sia scaturito il termine “valentino” nel senso di abitante-cittadino dei medesimi, o nel senso di fedele-dedicato alla Dea? E che successivamente il nome comune si sia trasformato nel nome proprio Valentino- Valentina?

A sinistra nicchia nell’ipogeo; a destra la fonte d’acqua (ph. Speleologo P. Gagliardi)

La tradizione della festa di San Valentino come vescovo e poi santo cristiano protettore degli innamorati, nonché patrono dell’antica Interamna Nahars (“la terra dei Naharki sorta tra i fiumi”), attuale Terni, affonda le sue origini, infatti, solo nel V secolo d.C. circa: tra il 492 e il 496 l’allora papa Gelasio I volle porre fine ai Lupercali, i riti festivi di tradizione romana che ancora si celebravano – pur essendo ormai il cristianesimo diventato la religione di stato e gli antichi culti pagani ufficialmente aboliti  –  nei giorni nefasti (dal 13 al 15) del mese di febbraio, mese culmine del periodo invernale, in cui i lupi stremati dalla fame si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi, e mese di purificazione tra l’altro, in attesa della rinascita primaverile. I Lupercali erano dedicati al dio Fauno nel suo aspetto di Lupercus, cioè appunto colui che tiene lontani i lupi, protettore del bestiame ovino e caprino, ma anche di Februus, cioè il purificatore dalla sterilità dei grembi femminili. Come ci ricorda Uberto Pestalozza, gli stessi eruditi di epoca romana condividevano l’opinione per cui la cerimonia dei Lupercali fosse stata portata da Evandro dalla Grecia al Palatino, per cui il dio latino Faunus era la trasposizione del dio arcadico Pan, già messo in relazione con la grande divinità femminile anatolica, di cui sopra abbiamo richiamato alcune caratteristiche attribuibili anche a Valentia.

Februarius dal Mosaico dei Mesi e delle Stagioni di El Djem

L’altra ipotesi altrettanto interessante sull’origine di questi riti, riferita da Dionigi di Alicarnasso, riguarda il miracoloso allattamento dei due gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che da poco aveva partorito.

Lupa Capitolina scultura in bronzo (ph. Merulana, 2022)

In ogni caso, la sede primitiva del culto di Faunus Lupercus era una grotta posta sul Palatino e chiamata appunto Lupercal, ricca tra l’altro di sorgenti e fonti d’acqua e di un folto querceto (“robur”): Lupercus quindi come compagno e paredro della Dea. Una dea come Feronia – il cui culto è ben attestato tra tutti i popoli italici – Una e Multiforme, “Dea agrorum et inferorum”, protettrice delle ancelle e dei liberti, della cosiddetta “prostituzione sacra” e sovrapponibile all’etrusca Phersipnai e all’ellenica Persefone. I suoi luoghi di culto sono limitrofi a quelli dell’antico dio-lupo (Apollo) Soranus – di cui permane l’etimologia nei toponimi ad esempio del monte Soratte, del Soriano – e che sono situati presso un bosco sacro (il lucus, ancora presente nel toponimo Piediluco, sempre nel territorio di Terni), un monte sacro e/o un sito oracolare all’interno di un antro/grotta con sorgente d’acqua, come nell’ipogeo di San Valentino. 
Il rituale dei Lupercali, per quanto ne possiamo ipotizzare o ricostruire dalle fonti, consisteva di una parte “misterica” riservata agli officianti del sacro, i sacerdoti – che si svolgeva appunto nella grotta e prevedeva molto probabilmente il sacrificio di animali, ovini in particolare, in sostituzione degli umani, che venivano solo unti col sangue sacrificale, e le pelli degli animali venivano poi ridotte in strisce – seguita da una parte “pubblica”, che culminava nella notte tra il 14 e il 15 febbraio e vissuta nella zona vicino al colle e alla grotta dai fedeli, che, correndo in modo frenetico, si colpivano a vicenda con fruste ricavate dalle pelli degli animali precedentemente sacrificati.
Risulta evidente che tali riti, di cui rimane chiaro il fine propiziatorio, trovavano certamente origine da altri ancora più antichi e in tutta probabilità legati alla fine dell’inverno e alla rinascita della natura e quindi alla fertilità- sessualità e con la finalità di propiziare il vigore e la primavera incipiente; in questo senso quindi acquista ancora più forza il possibile legame con la dea Valentia nei suoi attributi sopra accennati di forza, salute, espansione etc. È da notare tra l’altro che le azioni rituali di questo periodo, legate al ciclo di morte e rinascita della natura, potrebbero essere in qualche modo sopravvissute, adattate e trasfigurate nella celebrazione del Carnevale che manifesta infatti, dal nord al sud Italia, comportamenti e riti di sovvertimento dell’ordine costituito (come ricorda  Angelo Brelich la “sostanza della festa [si manifesta] tramite il disordine rituale e la purificazione”) e presenta moltissimi collegamenti anche col culto dei morti; considerando anche che nello stesso periodo, dal 13 al 21 di febbraio si svolgevano nella cultura romana le Parentalia, in onore dei parenti defunti. Dall’Editto di Milano del 311 d.C. con cui si concesse la libertà di culto per i cristiani, all’Editto di Tessalonica del 380, con cui il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero, il passo fu relativamente breve e dal 382 d.C. circa i templi furono chiusi o distrutti, i riti aboliti finché nel 394 anche il fuoco sacro custodito da centinaia di anni dalle Sacerdotesse Vestali fu spento, e tuttavia la forza del legame con la Dea, seppure trasformato e manipolato, non si è mai perso del tutto. È rimasto infatti vivo, seppure indebolito e nascosto, nei piccoli indizi riscontrabili nei nomi dei luoghi, nelle immagini sacre delle Madonne e sante, nelle danze, nei canti e nella devozione popolare e di cui ci accorgiamo se ci lasciamo guidare, con cuore aperto, dalla Sua luce di saggezza, flebile ma sempre viva e presente nei nostri cuori, e verso cui istintivamente sentiamo il richiamo della vita e della sua Presenza.

Eleonora Ambrusiano 13 Gennaio 2025


Bibliografia

  1. Lanfranco Aluigi – Valentia docet. La Dea, la storia, il territorio – Morphema Editrice – 2013;
  2. Quintilio Palozzi – L’epigrafe CIL 4082, La Dea Valentia. Il sito paleocristiano di Santa Maria di Otricoli – 2023;
  3. Uberto Pestalozza – Religione mediterranea. Vecchi e nuovi studi – Fratelli Bocca Editori – Milano 1951;
  4. Angelo Brelich – Introduzione alla storia delle religioni – Edizioni dell’Ateneo – Roma 1966;
  5. Renato Del Ponte – Dei e miti italici – ECIG – Genova 1985;
  6. Maria Concetta Nicolai – Femina in fabula. Dee, Sacerdotesse, Maghe e sacre Meretrici nell’Abruzzo italico – Spoltore 2020;
  7. Pierluigi Bonifazi – Torre Maggiore. La montagna sacra dei Naharki – 2023;
  8. Barbara Crescimanno – Ninfe ed acque in Sicilia. Una relazione sacra – 2017.