Il pozzo sacro di Sant’Anastasia è una struttura a conci isodomi di pietra basaltica e calcarea grezza, profondo circa 5 metri che si trova all’interno di un villaggio nuragico nel paese di Sardara. Il sito è stato rinvenuto nel 1913 dall’archeologo Taramelli e risulta parzialmente scavato a causa della sua posizione all’interno del paese. Risalente alla tarda età del Bronzo (XIII-XII sec. a.C.) presenta un vestibolo lastricato (di cui sono rimaste poche pietre) con sedili che porta ad una scala di 12 gradini sormontata da una copertura digradante. La scalinata termina nel bacino lustrale a pianta circolare del diametro di tre metri con copertura a thòlos. Nel lato opposto alla scala si trova un cunicolo lungo circa 6 metri che convoglia la vena sorgiva attraverso un’apertura ad architrave alla base della camera del pozzo.
Il vestibolo ha forma rettangolare, tipica dei pozzi sacri in cui l’atrio precede la scala che permette di accedere alla fonte, ed è provvisto di sedili in pietra laterali, in cui le persone potevano svolgere rituali e deporre offerte. Lo schema della pianta ripete quello del Pozzo sacro di Santa Vittoria di Serri. Come nel caso dei pozzi di Santa Vittoria e di Santa Cristina, accanto al pozzo è stata costruita una chiesa dedicata ad una santa dalla quale prende il nome il pozzo e che ha al suo interno un altro pozzo. Si tratta del consueto fenomeno di sincretismo religioso che in Sardegna risulta spesso collegato a siti archeologici o a santuari campestri dedicati al femminile, ovvero a sante (si vedano gli esempi sopracitati) o alla Madonna e che presentano chiari elementi di culti pre-cristiani assorbiti dalla religione cattolica. Sugli aspetti simbolici di queste appropriazioni sincretiche si rimanda all’analisi delle rappresentazioni iconiche del sito di Santa Cristina.
Reperti
Oltre a numerose brocche e vasi atti ad attingere e bere acqua ed una protome taurina che probabilmente si trovava all’ingresso della struttura, è stato rinvenuto un frammento di anfora fittile di tipo piriforme che presenta una interessante figura femminile in rilievo. Tale figura, che si presenta con una serie di segni geometrici (cerchi concentrici e spirali), ha in mano una sorta di bastone con l’estremità a forma di semiluna. I cerchi oltre ad avere una funzione decorativa dell’abbigliamento, sono stati incisi in punti del corpo molto significativi: occhi, seni, ventre, mentre il bastone, presenta una serie di tacche graduate. All’altezza dei seni dalla spirale si dipanano 5 linee di diversa lunghezza che sembrano rappresentare le mani.
Iconografia, culto e riti
Questo pattern iconografico si può notare anche in diverse statuette femminili neolitiche che portano le mani al seno o al ventre, come a mettere in rilievo l’aspetto della fertilità. I cerchi concentrici e le spirali, come ha più volte affermato Gimbutas, sono le rappresentazioni tipiche della Grande Dea che, in associazione con la luna, rimanda al concetto di rinascita e alla celebrazione del ciclo della vita in tutte le sue fasi. La luna, inoltre, è strettamente associata alla sfera femminile e al culto delle acque.
A questo punto vorrei proporre un (ardito) parallelismo con la Venere o Signora di Laussel, bassorilievo di una figura femminile di epoca paleolitica che con la mano sinistra si tocca il ventre e con la destra regge una sorta di corno (strumento rituale musicale?) che ricorda la forma della mezza luna e presenta 13 incisioni. Nel caso di Laussel, vista anche la presenza di ocra rossa con la quale era cosparso il corpo, si sono potuti fare collegamenti tra il sangue mestruale, le fasi del ciclo lunare ed il ciclo della vita (il ventre rigonfio simboleggia la gravidanza). Se da un lato il paragone risulta rocambolesco e azzardato, vista la lontananza spazio-temporale dei reperti, dall’altro è un prezioso indizio sull’universalità di simboli che permeano il sacro femminile: ciclo lunare, sangue e/o acqua, il potere di generare.
Sul fatto che queste strutture fossero adibite allo svolgimento di culti e riti non ci sono dubbi: il recinto sacro assimilabile al tèmenos greco e il rinvenimento di ex-voto rende chiara la loro funzione. Il fatto che fossero orientati per accogliere la luce del sole e della luna, oltre che a ragioni pratiche (la scalinata si dovrebbe altrimenti attraversare al buio), rispecchia delle credenze sull’Aldilà che tutte le antiche civiltà avevano.
Un altro elemento che può aiutare nella decrittazione delle valenze e funzioni (e/o rifunzionalizzazioni) dei reperti archeologici di epoche antecedenti la scrittura, sono i miti, le leggende, le credenze popolari e le denominazioni che sono state assegnate a queste opere. In questo caso, il pozzo è conosciuto in lingua sarda come fonte de is dolus ossia “fonte dei dolori” e richiama quindi il potere terapeutico dell’acqua di lenire i dolori e rimanda ai miti e leggende collegati al potere sacro e curativo delle acque. Negli atti del convegno a cura di Herrero, si riporta la credenza che le acque di questo pozzo potessero curare tutti i mali fisici e spirituali, mentre Turchi segnala alcuni riti praticati fino a tempi recenti che si potrebbero ricollegare al potere terapeutico dei pozzi sacri. In alcuni paesi della Sardegna, le guaritrici riempivano d’acqua una cavità nel pavimento costruita ad hoc e facevano bere la persona sofferente per tre volte con la bocca e senza l’uso delle mani, mentre recitava formule magico-religiose.
In generale, diversi studiosi (Taramelli, Lanternari, Pettazzoni, Lilliu) identificano il culto dell’acqua nell’isola come elemento costitutivo e imprescindibile della religiosità protosarda, mentre Buttitta riconosce nei pozzi sacri la celebrazione della “Grande Dea” e della “Madre Terra”. Lo stesso studioso nota come le virtù terapeutiche delle acque siano indicate dalla toponimia. Acque sacre alle quali venivano offerti doni e forse sacrifici che scongiurassero il pericolo della siccità con conseguente carestia e favorissero, per il fenomeno della trasposizione tipico dei simboli, la fertilità animale e umana.
Del resto, come già osservato nel caso del pozzo di Santa Cristina, molto evocativa è la pianta dei pozzi che sembra riprendere l’organo genitale femminile. Per quanto riguarda la rifunzionalizzazione in ambito religioso, risulta infine paradossale che la santa alla quale è stato dedicato il pozzo “pagano” sia una donna beatificata proprio per il fatto di essersi rifiutata di abiurare la fede cristiana, scelta forse nel tentativo di cancellare definitivamente le tracce ingombranti dei culti pre-cristiani.








Note storiche
Il sito è stato rinvenuto e scavato dal Taramelli nel 1913. Negli anni ’80 sono seguiti successivi interventi ad opera di Luisanna Usai, Giovanni Ugas e Roberto Sirigu, per concludere negli anni 2000 con Donatella Cocco.
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