di Arianna Carta
La Sardegna è un tempio a cielo aperto costellato di manifestazioni sacre o, per dirla con Eliade, ierofanie: nuraghi, domus de janas, tombe di giganti, menhir e pozzi sacri che si fondono con rocce zoo e antropomorfe (valle della luna, roccia dell’elefante, roccia dell’orso ecc.) grotte, terra, cielo, acqua, fuoco e gli astri. Terra antichissima e paesaggio dell’anima disseminata di simboli, archetipi, costruzioni e manufatti su cui studiosi e studiose ancora si arrovellano.
Sul pozzo di Santa Cristina molto è stato scritto, sia a livello archeologico che architettonico e persino astronomico, ma pochi/e studiosi/e hanno cercato di affrontare il terreno del sacro, per sua natura sfuggente e ricco di insidie.
In questa breve ricerca cercherò di portare alla luce alcuni aspetti che riguardano il sacro femminile, concentrandomi sugli elementi simbolici (per le caratteristiche di base della struttura si rimanda alla relativa scheda).
Ovviamente la possibile ricostruzione di culti e riti di epoche preistoriche, pur avvalendosi dei ritrovamenti e di precisi scavi stratigrafici, non può che rimanere nell’ambito delle ipotesi. Ma se, come scriveva Marija Gimbutas, le pietre parlano, vediamo cosa hanno da raccontare quelle di Santa Cristina.
Il “padre” dell’archeologia sarda e il pozzo di Santa Cristina
Uno degli archeologi che maggiormente ha contribuito all’archeologia sarda è certamente Giovanni Lilliu, prolifico archeologo insignito dell’onorificenza di “Sardus Pater”. Nel suo monumentale testo intitolato “La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei nuraghi” lo studioso si occupa anche dei pozzi sacri, affermando che “i monumenti di maggior rilievo dell’architettura sacra dell’età nuragica sono i templi a pozzo o pozzi sacri.” Secondo l’archeologo, nel vestibolo si svolgeva la cerimonia sacra officiata da un sacerdote o sacerdotessa e la scala aveva la valenza sacrale di collegamento con il regno sotterraneo. Nel suo saggio Lilliu analizza diversi pozzi presenti nell’isola e quando descrive il pozzo di Santa Cristina asserisce che questo tempio “rappresenta il culmine dell’architettura dei templi delle acque.”
Gli elementi principali
Per cominciare a capire quanto questo pozzo sia legato sia alla sfera (simbolica) del sacro che a quella del femminile, si può cominciare dal nome: Pozzo di Santa Cristina. Che una struttura dell’XI sec. a.C. sia ufficialmente associata ad una santa (dove per ufficialmente si intende sia l’ambito della religione cristiana che quello accademico archeologico), non è elemento da sottovalutare.[1] E se la spiegazione superficiale è la presenza di una chiesetta campestre sita nelle adiacenze della struttura, chi si occupa di studiare le tracce del passato sa riconoscere un chiaro indizio di appropriazione tipico delle religioni dominanti (o meglio, subentranti), ovvero la pratica di inglobare elementi del culto precedente (in questo caso “pagani” o pre-cristiani) che da un lato garantiscono continuità e dall’altro evitano pericolosi strappi nel tessuto socio-culturale.
Gli altri importanti elementi sono: la rappresentazione vulvare, il tema della discesa nell’Aldilà, l’elemento purificatore dell’acqua, il tema del doppio e quello della scala (che portano alla doppia scala), quello del capovolto (il mondo di sopra come quello di sotto), la simbologia ctonia legata alla caverna, il sole, spesso identificato con il principio maschile, e la luna, considerata dalla maggior parte delle fonti più come principio femminile.[2]
La vulva
Il perimetro del pozzo sacro, che usando una infelice terminologia archeologica viene definito “a serratura di chiave”, rappresenta una riproduzione ciclopica e piuttosto dettaglia direi, della vulva che, come le centinaia di reperti del Neolitico, statuette in primis, segnala possibili culti legati a divinità femminili o se non altro una sacralizzazione del corpo femminile.
Le associazioni con l’organo genitale femminile non finiscono qui: la scala si addentra nel terreno e arriva allo specchio d’acqua di forma circolare, sormontato da una tholos che l’architetto Larner definisce dalla peculiare forma a “collo uterino”. Dallo stesso studioso arriva l’ipotesi del collegamento con la divinità femminile Tanit[3], considerato anche il ritrovamento delle statuette di epoca fenicia.
Sul tema della vulva legato alla nascita e rinascita ha indagato l’archeologa Marija Gimbutas che, in uno dei suoi saggi più conosciuti, parla delle rappresentazioni vulvari che attraversano gran parte della preistoria, e cominciano ben prima della nascita dell’agricoltura. Secondo la studiosa, le prime incisioni rupestri si cominciano a trovare nel periodo Aurignaziano ovvero circa 32.0000 anni fa. Si tratta di immagini piuttosto schematiche ma chiare che, attraverso la figura metonimica della “parte per il tutto”, rappresenterebbero la Grande Dea, spesso collegata, in epoche successive, con l’elemento acquatico.
Le rappresentazioni della vulva e del ventre femminile caratterizzano dunque gran parte dell’epoca preistorica, sia da sole che associate ad elementi acquatici, conchiglie, semi e germogli, frutti, simboli di fertilità e di creazione della vita.[4]
Il culto delle acque
Le simbologie legate all’acqua sono tantissime, e discusse ampiamente da studiose e studiosi come Gimbutas, Eliade, che parlano di (ri)generazione, nascita e rinascita. Chevalier nel suo dizionario dei simboli dedica varie pagine alla complessa simbologia delle acque nelle varie culture e codifica l’acqua sulla base di tre temi fondamentali, come “sorgente di vita, mezzo di purificazione e centro di rigenerazione”. Secondo gli studiosi questo elemento è inoltre legato ai temi iniziatici pertinenti alla sfera del femminile ed è associato alla luna.
Neumann, riportando la donna all’archetipo del contenitore/vaso, considera l’acqua simbolicamente legata al femminile “intesa come grembo primordiale della vita”. Nella visione di questo studioso, il pozzo diventa il mezzo che permette di accedere al mondo sotterraneo, regno della madre terra.
Gimbutas mostra come la sacralità dell’acqua, in quanto elemento portatore di vita, risalga alla preistoria ed arrivi sino ai nostri giorni, manifestandosi e materializzandosi nei culti legati a sorgenti, fonti d’acqua e pozzi sacri. L’associazione di divinità femminili e ninfe è dimostrata da innumerevoli fonti storiche e folkloriche supportate da dati archeologici, per esempio il ritrovamento di statuette femminili, vasi con motivi acquatici ecc.[5]
Secondo Eliade le acque simboleggiano la morte e la rinascita essendo “fons et origo”. “il contatto con l’acqua comporta sempre una rigenerazione poiché da un lato alla dissoluzione fa seguito una ‘nuova nascita’, dall’altro l’immersione rende fertile e moltiplica il potenziale di vita.” L’immersione nelle acque significa dunque nuova vita perché le acque sono “purificatrici e rigeneratrici”. Secondo lo studioso, inoltre, la chiesa si è appropriata dei valori soteriologici delle acque e del simbolismo morte-rinascita collegato al battesimo.
Anche l’archeologa Maria Grazia Melis concorda nel ritenere che il culto delle acque in Sardegna sia strettamente legato alla sfera femminile indicando “il carattere femminile del culto” pur sottolineando una compresenza maschile rappresentata dal toro. La studiosa conferma la preponderanza di questo culto nel periodo del Neolitico e le sue attestazioni che perdurano anche durante l’età del Bronzo e del Ferro.
L’associazione del toro all’elemento maschile, data per scontata in ambito archeologico e non solo, sembra essere un retaggio culturale patriarcale, confutato anche dalla associazione tra le corna dell’animale e il quarto lunare che, secondo Eliade è una simbologia di antichissime origini[6]. Il collegamento tra le corna del toro/vacca (in ambito egizio[7]) e la falce lunare del resto, risulta molto più attinente a monumenti come il Pozzo di Santa Cristina, in cui si può trovare un chiaro legame tra simbologia femminile, luna ed elemento acquatico.[8]
Sul culto delle acque in Sardegna ha scritto lo storico delle religioni Vittorio Lanternari che nel suo saggio unisce dati archeologici a ricerche etnografiche, fonti storiche, iconografiche e tradizioni popolari. Lo studioso, pur collegando il culto alla divinità maschile del Sardus Pater, definisce il culto paleosardo delle acque come “indigeno e universale” in quanto giustificato dalla enorme diffusione dei pozzi sacri nell’isola. Anche lo studioso conferma la funzione sacrale dei pozzi, la cui struttura risulta troppo complessa ed elaborata per avere una funzione pratica. Lanternari, sulla scorta di Pettazzoni, compara il culto dell’acqua delle popolazioni indigene australiane e quelle sarde mettendo però in luce una grande differenza: mentre i cacciatori-raccoglitori australiani celebravano le acque piovane (dando luogo a miti uranici), per i protosardi il culto si rivolge alle acque sorgive. Lanternari scollega i pozzi dal culto degli antenati per collegarlo, sulla base di ritrovamenti archeologici come pietre mammellate, colombe, il bronzetto di madre con figlio itifallico e numerose statuette di animali (arieti, cervi, buoi)[9], alla fertilità/fecondità. Anche Lanternari fa notare il “sincretismo pagano-cattolico”, riferendosi all’appropriazione dei pozzi sacri da parte della Chiesa che “ha abilmente incorporato nella mitologia sacra cristiana un arcaico elemento pagano.”[10] L’elemento interessante è che il popolo, insieme con i preti che benedicevano l’acqua, celebrava il culto nel giorno del primo di marzo, in concomitanza con l’apertura della stagione agricola, una discrepanza troppo evidente perché non fosse notata dalla Chiesa che infatti abolì il culto del pozzo nel 1771. Per quanto riguarda il legame simbolico tra acqua e donne in Sardegna, Lanternari cita la tradizione di Ghilarza, di chiara matrice agricola, in cui viene costruita una lettiga con rami di ferula ed erba che viene portata in processione per il paese, mentre le donne dalle finestre spruzzano getti d’acqua sopra di essa. La valenza simbolica di questo rito è chiaramente legata alla fecondità/fertilità dove è proprio l’elemento femminile a favorire la (pro)creazione. In un altro luogo dedicato a Santa Lucia, a Bonorva, l’archeologo Taramelli ha rinvenuto una sorta di anfiteatro che circonda le pozze d’acqua medicamentosa. Era questo lo spazio in cui la comunità si riuniva per assistere secondo Taramelli e Lanternari all’ordalia. Dal momento che il riferimento a questa pratica non è sostenuto da nessuna evidenza archeologica o di altro tipo, ritengo più pertinente ipotizzare cerimonie di guarigione. Da notare che, per lo stesso processo sincretico, la struttura in epoca cristiana ha assunto il nome di una santa che, per l’appunto, cura malattie oftalmiche.
La Luna come “astro” dei ritmi della vita
Sono diversi gli studiosi che collegano la luna ai cicli della vita e alla sfera del femminile. Secondo Chevalier e Gheerbrant, la luna rappresenta il principio femminile ed è simbolo di trasformazione e di crescita, mentre secondo Eliade la luna è per eccellenza l’astro che simboleggia il ciclo della vita. Secondo Neumann “il simbolo spirituale privilegiato nell’ambito matriarcale è la luna, che è in relazione con la notte e con la Grande Madre del cielo notturno”, mentre in generale lo studioso osserva come “dal punto di vista archetipico i corpi luminosi costituiscono sempre simboli dell’aspetto cosciente e spirituale della vita umana”. Secondo lo studioso la luna è connessa al tema della rinascita.
Secondo Durand, l’acqua è un elemento dalla valenza femminile, anche per l’elemento liquido del mestruo, e aggiunge che “da una parte le acque sono sottomesse al flusso lunare e dall’altra, avendo un carattere germinativo, esse si congiungono al grande simbolo agrario che è la luna.”[11] Del resto, la maggior parte dei miti accomuna la luna e l’acqua alla stessa divinità (per esempio gli Irochesi, i Babilonesi, i Persiani – con la dea persiana Anahita Ardvisura –, per i messicani la luna è figlia di Tlaloc, la divinità delle acque).[12] La luna è indissolubilmente congiunta alla morte e alla femminilità, ed è attraverso la femminilità che si unisce al simbolismo acquatico.
Secondo Eliade: “la luna è lo strumento di misura universale…lo stesso simbolismo collega la Luna, le Acque, la Pioggia, la Fecondità delle donne, quella degli animali, la vegetazione, il destino dell’uomo dopo la morte e le cerimonie di iniziazione.”
Luna e acque: la luna per la sua stessa natura è strettamente legata al ciclo della vita: nasce, cresce e “muore” per poi rinascere e questo ne fa l’astro che per eccellenza simboleggia la ciclicità, il divenire, la fertilità. Per Eliade, la luna, biologicamente collegata al ciclo mestruale e quindi la fertilità, è stata usata in tutte le popolazioni antiche anche come mezzo di misurazione. Il collegamento tra acqua e luna, estrinsecato dalle maree, è stato rilevato fin dai tempi più remoti da tantissime popolazioni, dai Greci ai Celti, ai Maori e fino agli Eschimesi.
La luna è simbolo del passaggio dalla vita alla morte, è per questo che molte divinità lunari, come Persefone, sono anche ctonie e funerarie. Secondo Chevalier infatti, “la luna è ad un tempo la porta del cielo e la porta dell’inferno, Diana ed Ecate, il cielo di cui si tratta è il culmine dell’edificio cosmico. L’uscita dal cosmo si effettuerà soltanto attraverso la porta solare. Diana sarà l’aspetto favorevole, Ecate l’aspetto temibile della luna”. Iside, Istar, Artemide o Diana, Ecate, sono tutte divinità femminili legate alla luna: il collegamento con la Grande Dea neolitica è inevitabile.[13]
Anche se non volessimo considerare tutti gli aspetti simbolici, secondo l’archeologo Lebeuf, il pozzo rappresenta uno dei migliori esempi di osservatorio astronomico nell’area del Mediterraneo. La tholos del pozzo, grazie alla particolare disposizione dei conci arretrati, permette infatti di misurare i movimenti lunari e prevederne le eclissi. Da notare che ogni 18,61 anni la luna si specchia sulla superficie dell’acqua nel fondo del pozzo raggiungendo la sua massima altezza in occasione del lunistizio. Inoltre, dal punto di vista scenografico (e simbolico), risulta particolarmente rilevante la scala di luce che si crea durante il plenilunio.
La doppia scala capovolta
La simbologia della scala come elemento di rapporto e collegamento tra cielo e terra “quasi universale”, riguarda l’ascensione spirituale (graduale), e nella sua verticalità indica l’ascesa. Ad essa si può collegare l’albero del mondo e nella Bibbia è rappresentata dalla scala di Giacobbe, su cui salivano e scendevano gli angeli. La scala è presente in moltissime culture e filosofie come per esempio il buddismo, ed è un elemento che ritroviamo anche nei riti sciamanici siberiani con la scala di betulla a 7 pioli, nei misteri di Mitra diventa simbolo dei gradi dell’ascensione mistica, ecc. In Egitto, nelle dinastie arcaiche o medievali sono stati ritrovati diversi amuleti a forma di scala. Anche Durand descrive la scala come simbolo (dell’immortalità) ascensionale legandolo sia al culto di Mitra che allo sciamanesimo e alla scala di Giacobbe.
Sulla simbologia assiale e del passaggio, molto ha scritto René Guénon, esperto di simbologia sacra. La doppia scala capovolta del pozzo di Santa Cristina, nella sua discesa verso la fonte lustrale, è certamente una splendida realizzazione materiale di questo concetto. I simboli assiali per eccellenza, che rappresentano il passaggio tra i mondi (terreno e Aldilà), sono: l’albero del mondo su cui ci si può arrampicare, il ponte, elemento di collegamento per eccellenza e la scala doppia, la cui pregnanza simbolica è particolarmente forte, permettendo sia il movimento di discesa che risalita attraverso i gradini, espressione materiale e concreta dei “livelli o gradi dell’esistenza universale” e come tale legata a riti iniziatici. Anche Coomaraswamy nella sua indagine sul simbolismo dell’albero invertito, riflette che “l’Asse dell’Universo è come una scala sulla quale si effettua un perpetuo movimento ascendente e discendente.” Metafora e analogia ripresa dalla filosofia ermetica e dagli alchimisti che decretavano l’associazione tra il sopra e il sotto, ciò che è in alto è come in basso.
Il discorso del capovolto è altrettanto ricco di elementi simbolici e ha a che fare con il passaggio verso la morte, basti pensare alla rappresentazione dell’inferno dantesco (in cui del resto ritroviamo anche l’elemento dell’acqua nell’attraversamento del fiume). La superficie dell’acqua, che nel pozzo di Santa Cristina permette la visione dell’ombra capovolta, secondo Guénon, dovrebbe essere considerata come un piano di riflessione analogico in cui si specchia ciò che è in alto, ovvero la “sfera sopra-cosmica”, con ciò che è in basso, ovvero la “sfera cosmica.”
Sul discorso del capovolto, dal punto di vista meramente archeologico, pur non essendo il pozzo sacro una struttura ad uso funerario, si può suggerire un collegamento con i petroglifi antropomorfi capovolti della tomba di Sa concas (Oniferi) o della tomba Branca-Cheremule di cui scrivono Lilliu e P. Melis.
Conclusioni
In conclusione, la simbologia dell’acqua lustrale in diretta associazione con i due “astri” per eccellenza, sole e luna, la tematica del capovolto/mondo di sopra-mondo di sotto, della scala come axis mundi, i gradini come gradi dell’esistenza, la rappresentazione “ciclopica” di una vulva il cui ingresso permette di immergersi nella terra per toccare l’acqua, consente di ipotizzare la pratica di culti legati al sacro femminino. Pur non avendo certezze in merito, è molto probabile che ad officiare i riti legati al ciclo della vita, della morte e della rinascita fossero proprio sacerdotesse. Non essendoci fonti scritte dirette a riguardo, chiaramente si deve rimanere nell’ambito delle ipotesi ma, nel caso del pozzo di Santa Cristina, gli indizi sono tali e tanti da portare nella direzione di un culto della Grande Dea su cui Marija Gimbutas ha tanto scritto.
Note
[1] Per quanto riguarda l’associazione tra sante e pozzi sacri, si vedano anche i santuari di Santa Vittoria di Serri e Santa Anastasia di Sardara
[2] Secondo Chevalier e Gheerbrant, in tutte le antiche lingue indoeuropee il sole era femminile. Gli studiosi citano inoltre i Dogon del Mali la cui cosmogonia è lunare ed il sole rappresenta l’elemento femminile; si veda Luciana Percovich (2007) per una interessante analisi sulle radici femminili del sacro ed una critica alla polarizzazione dualistica del sapere
[3] Divinità femminile di origine fenicia, collegata alla dea Astarte; i suoi elementi simbolici sono la colomba, la palma ed il melograno
[4] Si rimanda anche alla scheda della statuina femminile (Venere-vulva) del riparo Gaban
[5] A tal proposito si rimanda all’articolo di Barbara Crescimanno Ninfe ed acque in Sicilia. Una relazione sacra
[6] Eliade (2008) associa la simbologia delle corna come rappresentazione doppia della luna nuova
[7] Sulla Dea-vacca vedica, si veda Eliade (2008)
[8] In ambito egizio, del resto, la vacca/toro era l’animale consacrato ad Iside e Hathor, divinità femminili che incarnano la Madre Universale e la natura. L’elemento ancora più significativo è che sono proprio il sole e la luna a rappresentare le dee, come dimostrato dalla iconografia delle corna crescenti della vacca e dal disco solare. Secondo E.O. James, anche Anat “signora della montagna” o “signora del cielo” è associata ad una vacca selvatica, simbolo della Grande Madre in Asia Occidentale ed Egitto
[9] Nel tempio a pozzo di Santa Anastasia di Sardara è presente una protome taurina
[10] Riferendosi ai pozzi in generale ma a quello nei pressi di Bosa chiamato “De sos tre res, cioè dei tre re magi.”
[11] A supporto di questa tesi lo studioso cita svariate mitologie che uniscono luna e acqua, (cfr. anche Eliade 2008)
[12] Eliade (2008)
[13] Sull’associazione donna-luna, o meglio fasi della luna e mestruazioni, esplicitato in modo mirabile dalla Signora di Laussel, si veda il contributo di Luciana Percovich sul Sacro Femminile
Arianna Carta – 2021
Bibliografia
- Jean Chevalier e Alain Gheerbrant – Dizionario dei simboli: miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri – Milano Rizzoli 1992;
- Ananda Kentish Coomaraswamy – “The Inverted Tree” – in Quarterly Journal of the Mythic Society of Bangalore – 29, pp. 1–38 – 1938;
- Gilbert Durand – Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale – Dedalo edizioni – Bari 2013;
- Mircea Eliade – Immagini e simboli – Jaca Book – Milano 2018;
- Mircea Eliade – Trattato di storia delle religioni – Bollati Boringhieri – Torino 2008;
- Marija Gimbutas – Il linguaggio della dea – Roma 2008;
- René Guénon – Simboli della scienza sacra – Adelphi – Milano 2000;
- Oliver James Edwin – Antichi dei mediterranei – Il Saggiatore – Milano 1963;
- Vittorio Lanternari – Preistoria e folklore: tradizioni etnografiche e religiose della Sardegna –L’Asfodelo – Sassari 1984;
- Franco Larner – Storia, tecnologia, architettura e astronomia – Edizioni Flap – Mestre 2008;
- Arnold Lebeuf – Il pozzo di Santa Cristina un osservatorio lunare – TlilanTlapalan – 2011;
- Arnold Lebeuf – “Nuraghic Well of Santa Cristina, Paulilatino, Oristano, Sardinia” – in Handbook of Archaeoastronomy and Ethnoastronomy – Springer Science+ Business Media – New York 2015 – pp. 1413-1420;
- Simona Ledda – “Demetra: ragioni e luoghi di culto in Sardegna” – in Insula: Quaderno di cultura sarda – n. 6 – 2009 – pp. 5-24;
- Giovanni Lilliu – La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei nuraghi – Il Maestrale – Nuoro 2017;
- Maria Grazia Melis – “Osservazioni sul ruolo dell’acqua nei rituali della Sardegna preistorica” – in Rivista di scienze preistoriche – LVIII – 2008 – pp. 111-124;
- Paolo Melis – “La religiosità prenuragica” – in La Sardegna preistorica, storia, materiali, monumenti – Carlo Delfino Editore – Sassari 2017;
- Alberto Moravetti – Il Santuario nuragico di Santa Cristina – Guide e Itinerari – Sardegna archeologica – Carlo Delfino editore – 2003;
- Erich Neumann – La grande madre: fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio – Astrolabio – Roma 1981;
- Luciana Percovich – Oscure madri splendenti: le radici del sacro e delle religioni – Venexia Editrice – Roma 2007;
- Julien Ries – L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità – Jaca Book – Milano 2007;
- Giuseppa Tanda – “L’Ipogeismo funerario in Sardegna” – in La Sardegna preistorica, storia, materiali, monumenti – Carlo Delfino Editore – Sassari 2017 – pp. 111-135.