La Grotta del Romito, presso Papasidero (CS), rappresenta uno dei siti in grotta più interessanti e importanti del Paleolitico italiano, grazie anche agli scavi condotti da Paolo Graziosi negli anni ‘60 che hanno messo in luce alcune figure incise a carattere naturalistico (figure di bovidi) e astratto (segni lineari) nonché alcune sepolture plurime, proseguiti a partire dagli anni 2000 con nuove campagne di scavo e scoperte.
Il sito del Romito è situato nel Parco Nazionale del Pollino, a 275 metri s.l.m. ai piedi del monte Ciagola e nei pressi del fiume Lao – attivo già durante l’epoca paleolitica e utilizzato come via di comunicazione, per risorse alimentari e litiche – e costituisce uno dei più importanti giacimenti dell’Italia meridionale. La sua rilevanza nell’ambito dei siti preistorici è legata all’imponente stratigrafia che, come spiega il Prof. Fabio Martini, copre un arco temporale che dal Paleolitico giunge fino al Neolitico, rivelando reperti importanti per la ricostruzione storica delle attività delle comunità umane che abitarono il sito, le loro condizioni di vita e interazioni con l’ambiente e il paesaggio circostanti, oltre che indicazioni sulla fauna e sui condizionamenti subiti dalle comunità dai cambiamenti climatici avvenuti tra la fine del Paleolitico e il Neolitico. Infatti, sono state identificate tracce della presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa, che ha avuto fasi alterne di ingrossamento durante i secoli e, in seguito ai prosciugamenti e ad interventi di bonifica, ha consentito la frequentazione umana del sito per moltissimo tempo. Nei livelli inferiori della grotta si pensa che l’occupazione umana sia stata sporadica, a causa di una maggiore presenza delle acque del piccolo ruscello interno alla grotta stessa: i dati derivati dalle analisi dei sedimenti e dalle cronostratigrafie evidenziano per questa epoca l’inizio di un clima freddo-umido. Successivamente, è avvenuto un raffreddamento del clima, confermato dai resti faunistici rinvenuti appartenenti sia ad ambienti boscosi e montagnosi (ungulati, come il cinghiale, stambecco, camoscio, cervo) sia di pianura e spazi aperti (cavallo, uro). I gruppi umani avevano quindi la possibilità di frequentare habitat diversi, anche lontani dal sito, per la loro attività di caccia, e in generale la zona è rimasta favorevole alla vita delle comunità umane, con abbondanza di risorse fino al Neolitico. Proprio relativo a questa epoca sono i reperti di ossidiana che farebbero identificare quest’area geografica come zona di scambio e transito, tra il versante tirrenico e quello jonico, del vetro vulcanico proveniente dalle isole Eolie, confermando quindi l’importanza delle popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e nel controllo di questa risorsa. Dall’analisi dei resti di fauna e microfauna e vegetazione è emerso che la zona era particolarmente favorevole agli insediamenti umani: presenza di acque, boschi e prati e soprattutto un graduale passaggio a condizioni climatiche via via sempre più favorevoli (umide e temperate).
Il sito è composto da due parti: la grotta vera e propria di circa 20 metri di lunghezza, e il riparo la cui estensione è di circa 34 metri, e comprende anche parti non completamente esplorate. In epoca paleolitica la grotta e il riparo formavano un unico spazio di abitazione, molto ampio, ma in tempi più recenti fu costruita una chiusura artificiale con un muro per utilizzare la caverna come romitorio (da cui la denominazione attuale); parte del muro è stato poi ulteriormente inglobato nella roccia a causa di fenomeni carsici e formazioni calcaree, quindi gli spazi interni sono ormai completamente separati dal riparo esterno e rimane solo uno stretto passaggio che costituisce l’ingresso vero e proprio alla grotta.
Durante gli scavi, effettuati dal 1963 al 1967, condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria e dall’Istituto Italiano di preistoria e protostoria con la direzione del Prof. Paolo Graziosi e la collaborazione della Dott.ssa Mara Guerri e del Prof. Santo Tinè, vennero alla luce sepolture e numerosi reperti litici ed ossei. Di forte interesse antropologico sono i due massi rocciosi che si trovano alle estremità opposte del riparo:
- il primo, sul lato orientale del riparo, di dimensioni di circa 3,50 metri, è ricoperto di numerose incisioni lineari (Fig.2), segmenti incisi più o meno profondamente, con diverso andamento (rettilinei, curvilinei), disposti in più direzioni senza alcuna organizzazione nella composizione e senza alcun significato apparente, sia a gruppi sia sparsi, e rappresentano un motivo ricorrente nell’arte rupestre europea, soprattutto del Paleolitico superiore finale. Se ne hanno diverse testimonianze anche in altri siti italiani (Sicilia, Puglia, Liguria) sia come incisioni a sé stanti sia come segni che ricoprono incisioni zoomorfe.
- Sul secondo masso, detto “dei tori”, di quasi due metri e mezzo di larghezza, situato al limite tra l’area interna di grotta e quella esterna del riparo, i segni lineari citati prima sono stati usati per incidere un grande uro (Bos primigenius), un bovino selvatico antenato dei bovini domestici (Fig.3), lungo ben 120 cm e dalle proporzioni perfette. Oltre alle corna, viste ambedue di lato, proiettate in avanti e col profilo chiuso, sono stati infatti riprodotti dettagliatamente le narici, la bocca, l’occhio, le pieghe del collo.
Il Prof. Paolo Graziosi studiò il sito durante la prima campagna di scavi, ponendo le incisioni rupestri nell’ambito stilistico mediterraneo, in cui è evidente la riproduzione di temi geometrici ed astratti, e rinvenibili nell’arte paleolitica franco-cantabrica e affermò che “si ha l’impressione che almeno parte di questi segni preesistessero all’esecuzione del toro e che qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi pieghe”. Analizzando in particolare la figura del bovide più grande, così perfetta nel disegno e nella prospettiva, e anche nella scelta della superficie rupestre che garantisce tridimensionalità, affermò di essere di fronte a “la più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto ad un Michelangelo dell’epoca”. Tra le zampe posteriori dell’uro vi è incisa, molto più sottilmente, quasi abbozzata, un’altra immagine di bovino di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena (Fig.4). Anche questo è rappresentato con le corna proiettate in avanti, divise in due solo nella seconda metà, invece nella prima parte è presente un solo corno, ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sulla parte inferiore dello stesso masso è incisa infine una terza piccola testa di toro. A fianco del masso col toro si ritrova una stalagmite a forma di equide senza testa. Graziosi sostenne inoltre che “il rinvenimento delle sepolture nell’area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”; infatti la ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte funerarie, elementi che forniscono informazioni sull’universo simbolico, le pratiche rituali e funerarie paleolitiche. Il Prof. Fabio Martini, che succedette a Graziosi nelle successive e più recenti campagne di scavi, assegna a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce a tutto l’ambiente un indiscutibile legame con il sacro. Infatti, considerando la posizione del masso all’ingresso della grotta, sembra proprio che l’immagine del toro sia stata posta come totem della collettività, richiamandone l’importanza nei riti propiziatori per la caccia. Importante notare poi che lo stile della Grotta del Romito richiama quello della grotta Levanzo, dell’Addaura, di Niscemi e dei Puntali. Oltre che ai dati propriamente ambientali che danno la possibilità di ricostruire la fauna, la flora e il paesaggio del Paleolitico, il sito della Grotta del Romito è importantissima anche per i reperti relativi ad oggetti di vita quotidiana, alla produzione artistica e ai riti funerari e alle sepolture.
A proposito degli oggetti (industria litica e ossea), si segnala il ritrovamento, già dai primi scavi degli anni ’60, di numerosissime punte cosiddette a dorso profondo (Fig.6), certamente funzionali all’attività di caccia, e di due zagaglie in osso, manufatti con una punta acuminata, anche in questo caso destinate alla caccia, con decorazioni geometriche (Fig. 6). Queste sono state ritrovate da Graziosi già nei primi scavi e rappresentano delle testimonianze importanti della cosiddetta arte mobiliare del Paleolitico; sono state ottenute da diafisi di metatarso di uro e dunque, vista la corrispondenza con le incisioni rupestri, si è portati a pensare che il bovide abbia rappresentato un grande significato, probabilmente totemico. Entrambe sono frammentarie alla base e hanno dimensioni leggermente diverse, comunque intorno ai 13 cm, e hanno una forma ogivale. Nella prima il motivo geometrico è formato da una figura rettangolare che ne incornicia un’altra, entrambe circondate da linee parallele, rette e zig-zag e segni a dente di lupo ai bordi dell’oggetto. Nella seconda la decorazione è formata da piccole tacche parallele orizzontali sui bordi e altre linee più lunghe, sempre orizzontali e raggruppate, il cui schema compositivo di decorazione trova analogie con altri esempi europei. A causa della frammentazione degli oggetti non è possibile cogliere la decorazione completa, anche se la parte della punta rimane non decorata. Le analisi col microscopio elettronico a scansione hanno evidenziato che i tratti incisi, realizzati con uno strumento in pietra, presentano una buona regolarità, la punta è stata fabbricata tramite raschiatura sempre con uno strumento in pietra a cui è seguito sfregamento con un materiale morbido, forse pelle. Il dato più interessante è che sugli oggetti non sono presenti tracce di usura, a dimostrazione che non furono mai utilizzati per la caccia, e dunque è verosimile ipotizzare che fossero oggetti simbolici e/o di culto, connessi ai riti funerari; ipotesi avvalorata dalla presenza di tracce di ocra rossa nelle incisioni lineari della zagaglia n.2. Inoltre ricordiamo che le linee che salgono e scendono, gli zig-zag, ricordano simbolicamente le increspature dell’acqua in superficie e quindi possono essere un simbolo di movimento, ricollegandosi all’energia di ascesa e discesa, di calma e di forza, forza vitale, rinascita.
Note storiche
La grotta fu scoperta nella proprietà del signor Agostino Cersosimo nel 1961, dal direttore del Museo comunale di Castrovillari, su segnalazione di due papasideresi, Gianni Grisolia e Rocco Oliva, durante un censimento agrario; si trova a 14 km dal centro urbano di Papasidero in una vallata a sinistra del fiume Lao. In effetti, già nel 1954, un appassionato di archeologia del paese di Laino Borgo aveva segnalato il riparo evidenziando la presenza della figura di un toro in quello che era l’ingresso della grotta. Gli studi furono quindi affidati a Paolo Graziosi, che diresse i lavori fino al 1968. A partire dagli anni 2000 la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo, il Prof. Fabio Martini, che gli è succeduto nella guida del Dipartimento di Paletnologia dell’Università di Firenze. Le ricerche sono proseguite attraverso un’ottica interdisciplinare coinvolgendo paletnologi, antropologi, naturalisti, anche con l’intenzione di ottenere nuovi dati dalla vecchia serie stratigrafica, e ampliando l’area delle ricerche anche in zone della grotta non precedentemente analizzate. Infatti, a partire dal 2011, gli scavi stratigrafici si sono estesi anche nell’area del riparo esterno, che ha confermato una frequentazione mesolitica datata a un periodo compreso tra 10.500 e 9.000 anni dal presente e che documentano quindi una continuità nella presenza di comunità umane nella zona.
La Grotta del Romito si trova a 296 metri s.l.m. ai piedi del monte Ciavola in località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella Valle del fiume Lao, in provincia di Cosenza, e fa parte quindi di un ambiente naturalistico di grande fascino: sono caratteristiche geologiche tipiche di questo paesaggio le grotte carsiche, i ripari e le gole. La denominazione dipende dalla frequentazione dei monaci del monastero di Sant’Elia che già dall’anno Mille la utilizzarono come eremo. Il sito è attualmente fruibile grazie alla collaborazione tra l’Università di Firenze e il Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria con la Soprintendenza Archeologica della Calabria ed il comune di Papasidero. Sul sito sono stati infatti realizzati interventi che garantiscono l’accesso alla grotta, come passerelle, impianti di illuminazione adeguati e la modalità di fruizione integrata del sito archeologico, prevedendo anche visite guidate e attività e supporti didattici per bambini. Inoltre nell’antiquarium ubicato in loco è possibile vedere alcuni reperti esposti.
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