di Maria Laura Leone
La nota statuina di Passo di Corvo è stata trovata nell’omonimo villaggio neolitico nella piana di Foggia, ai piedi dei monti del Gargano. È stata fotografata e analizzata più volte, commentata in diversi scritti[1]; e ritratta in un rilievo che bene evidenzia i suoi simboli, descritti nell’opera omnia di Maria Gimbutas[2]. Ma la foto presente (fig. 1) potrebbe rivelarne un’identità mai descritta.
È conservata a 27 km dal suo luogo di origine, nel Castello museo di Manfredonia, in una piccola teca illuminata che ricorda una grotticella, insieme a figurine coeve: una sua compagna di villaggio e tre “cugine” provenienti da altri siti; quello di S. Matteo Chiantinelle (Serracapriola) e di Canne della Battaglia (Barletta). Ma lei è speciale e questa luce ne evidenzia dettagli che potrebbero tradire la ragione della sua esistenza, i pensieri che ne hanno mosso l’esecuzione. E non ho remore a immaginarla realizzata da una donna.
Vista in questa splendida foto sembra rivelarci una verità toccante che forse è sotto i nostri occhi da sempre. Una verità racchiusa in una forma essenziale, lampante, pensata in un piccolo busto marcato da zig-zag e clessidre appena visibili.
Guardandola in questa foto mi risulta come mai vista e se precedentemente, come altri, la vedevo immersa in trance, ad occhi chiusi in estasi, sulla scia di altre statuine ritratte in meditazione profonda o in preghiera ieratica[3], ora il mio pensiero va a un’infante. Una femminuccia che non dorme ma muore e la cui anima sta per percorrere, a ritroso, la via per il mondo altro.
I simboli che l’accompagnano sono quelli della Dea, segni, impronte, tatoo che tentano di ridarle la vita. Un tempo era coperta di ocra[4], la sostanza che infondeva vita a chi la vita non l’aveva più[5]. Simboli ancora da comprendere appieno ma inquadrabili nella sfera degli elementi fondamentali: la clessidra simile al corpo femminile che genera e lo zig-zag simile alle onde di un liquido. Liquidi sono il latte materno, gli umori uterini, l’acqua che disseta. A tal proposito andrebbero ricordati anche i segni a forma di W, dipinti su un volto plastico femminile (fig. 2) trovato a Grotta dei Cervi (Porto Badisco, Otranto).
Nello zig-zag c’è anche un’analogia con la costellazione di Cassiopea[6].
La forma di Cassiopea è interessante, dal cielo ci parla attraverso uno zig-zag, che in autunno ha forma di M e in primavera ha forma di W, entrambe lettere simili alla sigla di Mamma, Maia, Mater, Madre, Maria, e lettera tutt’ora indicante la Vergine (fig. 3). Non si esclude che la statuetta in questione, come le altre consimili, ruotasse nella sfera delle azioni sciamaniche mosse da donne. In tanti devono aver pensato a un lattante, scartando un’identità scontata.
Noi archeologi, studiando, analizzando e numerando, non sempre ci permettiamo lo spazio mentale di penetrare nel quotidiano delle vite che si sono svolte in una capanna appena scavata o nel pianto che si è sciolto attorno a una deposizione. Infatti, non è scontato un dramma che si ripete da millenni dopo la nascita. Non è banale il dolore di una madre che mette in atto ogni procedimento per non dimenticare la propria creatura affidandola alle cure celesti. Perché, questa statuina non potrebbe essere una bimba vera? Coperta dai sacri segni della genitrice celeste e che indossa la sua cuffietta, la sua collana. Perché non pensare a un’infante in punto di morte da affidare alla potenza di Lei? Oppure, e non andrebbe nemmeno escluso, che fosse Lei: la Grande Madre bambina che, ancor prima del Redentore Cristiano, nasceva in una fredda notte d’inverno. Tale sembra essere questo unicum assoluto di otto/sette mila anni fa. Un gesto d’amore plasmato alla luce di un focolare, magari accompagnato da una madre che canta una nenia in cui prega la Dea di guarire la piccola, tenerla al caldo e proteggerla quando la fredda tramontana scende dai garganici monti e porta il gelo sul villaggio.
I volti delle statuette sembrano parlarci e i loro occhi chiusi potrebbero rimandare a uno stato meditativo profondo, quanto alla preghiera, al sogno o alla morte. Sono già idealizzazioni e vanno visti dal vero, fotografati sotto le luci migliori e con le diverse angolazioni. L’archeologia non sarà scienza esatta, ma nemmeno inesatta e sul “sentire della Dea” c’è ancora molto da esplorare.
Note
[1] Santo Tiné – Passo di Corvo e la civiltà neolitica del Tavoliere – Genova – Sagep 1983 – p. 201;
Maria Antonietta Fugazzola Delpino e Vincenzo Tiné – “Le statuine fittili femminili del Neolitico italiano. Iconografia e contesto culturale” – in Bullettino di Paletnologia Italiana – Volume 93-94 – Nuova Serie XI-XII – Roma – Istituto Poligrafico Zecca dello Stato – 2002-2003;
[2] Marija Gimbutas – Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica – Milano – Longanesi – 1990 – p. 390;
[3] Maria Laura Leone – La fosfenica Grotta dei Cervi. Arte, mitologia e religione dei pittori di Porto Badisco – Espresso www.miolibro.it – Roma 2009;
[4] Santo Tiné – Passo di Corvo e la civiltà neolitica del Tavoliere – Genova – Sagep 1983 – p. 201;
[5] Maria Laura Leone – “Filosofia dell’aldilà nel Paleolitico pugliese” – in Ipogei, quaderni dell’IISS “S. Staffa” di Trinitapoli – dicembre 2006 – n.1 – pp. 83-92;
[6] Enrico Calzolari – La preistoria del Caprione. Ricerche di etnoscienza e paleoastronomia effettuate sul promontorio che domina il Golfo dei Poeti – Marna – Lecco 2006.
Maria Laura Leone, 8 gennaio 2023