Nel complesso del Parco Archeologico di Contrada Arpinova sono stati ritrovati complessivamente 8 esemplari frammentari considerati manufatti plastici; tra questi, due statuine femminili alte circa 7 cm sono plasmate a tutto tondo mentre gli altri manufatti sono dei frammenti di facce di statuine, alcune schematizzate a bassorilievo.
Una statuina in particolare desta interesse per la particolare espressione del volto e per alcuni simboli riportati sul corpo. Di questa statuina si è interessata anche la celebre archeologa lituana Marija Gimbutas che, nel libro “Il linguaggio della Dea” (Milano 1990, pag. 22-23) scrive: “Segni a M compaiono anche su varie statuette, in particolare sotto ai seni, la fonte del latte e del nutrimento. Anche questa statuetta, con maschera e collana a V, reca una M sulla parte posteriore. Da notare anche le farfalle, simbolo di rigenerazione, poste sotto le M.” Il reperto è una figura femminile, probabilmente una Dea Madre, appare in stato di trance con il capo reclinato all’indietro in atteggiamento ieratico, un berretto in testa di tipo frigio, gli occhi socchiusi e con una striscia di ocra rossa che le scende da una narice; porta una collana con 22 grani che le ricade sul petto; al di sotto dei piccoli seni si notano due segni speculari ad M, a simboleggiare l’acqua che secondo la Gimbutas è sostanza vitale d’eccellenza, simbolo della Dea, mentre per altri rappresenterebbero la costellazione di Cassiopea; ancora più sotto vi sono due disegni di farfalla, simbolo di rigenerazione, legati al ciclo vitale dell’uomo e della natura. Questa statuina è stata realizzata con tecnica ad impasto grigiastro con inclusi calcarei cotti non uniformemente e questa caratteristica, insieme all’utilizzo della tecnica graffita per le incisioni, hanno fatto si che venisse datata alla III fase del neolitico antico.
L’altra statuina, datata al neolitico medio, è stata realizzata in argilla figulina di colore rosato, ben cotta, con superfici alquanto scabre e di esecuzione più sommaria e grossolana rispetto alla precedente. Anche questa è a tutto tondo, mancante della parte inferiore, il corpo presenta solo i due seni in rilievo, il naso e le due braccia aderenti al corpo; gli occhi e la bocca sono indicati da tacche orizzontali leggermente deformate per danni durante gli scavi. Il sito di Passo di Corvo risulta essere di particolare interesse in quanto nell’area si sono concentrate più campagne di scavo che hanno portato alla luce i resti di un insediamento di notevoli dimensioni, considerato il più grande villaggio d’Europa risalente all’età neolitica (tra il VI ed il IV millennio a.C.). Di ampiezza inferiore ai 2 ettari, il villaggio era protetto da un triplo fossato a pianta arcuata e circa un centinaio di complessi di capanne. La presenza di tanti fossati intorno ai villaggi e di fossi a forma di C non ha ottenuto ancora una spiegazione valida: si è pensato che servissero alla protezione delle abitazioni o come una sorta di recinto per l’alloggiamento degli animali, ma nessuna delle due indicazioni è idonea in quanto le abitazioni erano all’esterno dei fossati che a loro volta erano troppo piccoli per contenere animali.
Note storiche
La scoperta del sito avvenne fortuitamente, attraverso lo studio di alcune foto aeree scattate dalla Royal Air Force nel 1943 e grazie all’intuizione del Tenente dell’Esercito Inglese J.S.P. Bradford che per primo individuò nelle immagini scattate dai colleghi piloti, i segni della presenza degli antichi insediamenti a “C” che disegnavano i perimetri delle capanne neolitiche.
“… Nel Tavoliere sono stati identificati dall’alto approssimativamente un migliaio di siti. Nel biennio 1978-79 sono stata personalmente testimone di questa incredibile densità di villaggi cinti da fossati lavorando con un magnetometro e un’equipe dell’UCLA nell’area compresa tra i fiumi Cervaro e Ofanto. Nel corso di alcune settimane ho identificato settantacinque insediamenti cinti da fossato. Il magnetometro ha rilevato i fossi, poiché tutto quello che una volta apparteneva alle cascine – ceramica, arnesi in pietra e osso e resti animali – si è mescolato dentro questi. Sfortunatamente non possiamo ricostruire le case, i templi e il loro arredamento con nell’Europa centrale e nei Balcani, poiché molto poco è rimasto in situ…” (M. Gimbutas, 2012, pp. 177-179). A metà degli anni 70, gli scavi vennero condotti dall’Università di Genova, coadiuvati dal Professor Santo Tinè; il sito è risultato ricco di reperti, sepolture, oggetti di culto e della vita quotidiana, oggi custoditi nel Museo Civico di Foggia e nel Museo Archeologico Nazionale di Manfredonia. Il Parco Archeologico è facilmente raggiungibile sulla strada statale 89 da Foggia per Manfredonia, si devia per San Marco in Lamis sulla stata Provinciale 26 fino ad arrivare a destinazione.
SCHEDA
ULTIMI TESTI PUBBLICATI
VISITA LE SCHEDE PER OGGETTO