Touta Marouca
Tabula Rapinensis e l’arbusto selvatico della Marruca con i frutti bruciati dalla siccità di agosto 2021

di Ernestina Cinosi

Un esempio eccezionale di un vecchio toponimo italico rimasto intatto sino ai nostri giorni, una miracolosa sopravvivenza trasmessa attraverso venticinque secoli (…), è stato accertato alle falde della Majella.

Un vecchio toponimo che ricorre nel mito, nella legge sacra del popolo marrucino, nel nome del sito archeologico e nel nome di un arbusto selvatico.

Narrano i vecchi della prossima Rapino che le mura appartenevano ad una grande città chiamata Tuta. Su di essa regnava la fata Maruca, figlia di Ruta, che si teneva per amasio un giovinetto bellissimo di nome Tase. Ma tre giovani sorelle Ruma, Tatu e Sepiana amavano Tase e contrapponendo alle arti magiche di Maruca la loro giovinezza, riuscirono a strapparlo alla fata. Maruca allora nell’impeto della gelosia uccise Tase e poiché le rivali tentarono di fuggire alla sua vendetta, le avvolse di improvvisa oscurità e scatenò contro di loro tuoni, fulmini e persino le rocce sino a che una ad una le ebbe uccise’’. (V. Cianfarani in “Culture Adriatiche d’Italia’’, pag. 67.)

Una triste storia di amore tradito, di violenza e vendetta che sembra darci alcune informazioni sul retaggio di un mondo lontano nel tempo, forse il periodo in cui un nuovo mondo sta per sostituirsi al vecchio, che tuttavia cerca di resistere nella disperata, violenta reazione di Maruca.

Maruca, la fata, regnava su una città prossima al più grande santuario della zona, la Grotta del Colle che ha restituito, secondo la tesi più accreditata, il più importante documento in lingua osca finora conosciuto: la Tabula Rapinensis, la legge sacra del popolo marrucino, nella quale compare per ben due volte il termine “maroucai”.

La tabula, insieme alla statuetta di offerente detta “la dea di Rapino’’ e vari ex-voto, conferma la funzione di luogo sacro della Grotta.

La Grotta del Colle (ph. E. Visciola)

La storia di Maruca ci dice che essa era regina (regnava su una grande città), figlia di Ruta. Ruta è un nome di donna? Era il nome della madre? E’ possibile che lei fosse una delle ultime espressioni di potere tramandato in linea femminile?

Il “giovinetto bellissimo’’ che lei “si teneva per amasio’’ sembra avere un ruolo subordinato rispetto alla fata (si teneva); il suo Paredro? Sembra essere più giovane di lei (giovinetto); sembra che lui ricopra un ruolo ben definito, un ruolo che gli dà onore, che sicuramente lo lusinga, probabilmente sancito dalla società e rispettato dai suoi membri, ma al quale egli deve attenersi con serietà e consapevolezza.

Quando il vincolo che lega Tase alla dea viene da questi infranto, Tase soccombe all’ira della fata. Con le sue arti magiche Maruca scatena gli elementi anche contro le tre sorelle tentatrici. Lei, quindi, ha potere sulla luce e sul buio (le avvolse di improvvisa oscurità), sull’acqua e sull’aria (scatenò contro di loro tuoni e fulmini) e sulla terra (scatenò contro di loro persino le rocce).

Maruca dunque è una maga potente come Angizia, come Circe, come Medea…? Una pharmakides? Sicuramente è una donna di alto rango che esercita il suo potere, che ha una grande conoscenza delle leggi che governano la natura, che decide del proprio destino e del destino di coloro che da lei dipendono.

E quale simbologia è nascosta dietro la funzione tentatrice delle tre sorelle? Perché “tre’’? Perché tutte e tre si innamorano di Tase e si pongono contro Maruca? Sono forse espressione di un’epoca in cui un nuovo ordine sociale va gradatamente sostituendo gli equilibri ormai precari di un mondo che mostra ancora segni, seppur affievoliti, di antica potenza femminile?

E’ una storia che pone interrogativi e fa nascere curiosità.

E’ in questa epoca che si è resa necessaria la legge scritta nella Tabula Rapinensis?

Il testo della Tabula

Scrive Adriano La Regina:

Il testo è irregolarmente inciso in alfabeto latino e si può attribuire per la forma delle lettere e per la presenza della lettera G, già distinta dalla C, alla fine del III secolo a.C. La trascrizione presenta qualche difficoltà, ma può essere attendibilmente ottenuta dall’esame delle diverse riproduzioni grafiche disponibili. Quando sarà possibile un nuovo esame dell’originale, la lettura potrà essere forse migliorata.

E questi sono secondo il suo esame il testo, la struttura e la traduzione

Testo:

aisos pacris totai
maroucai lixs
asignas ferenter.
auiatas toutai.
[5] maroucai ioues.
patres ocres tarin
cris iouias. agine
iafc esuc agine asum
ba[-]u [-]poleenis feret
[10] regen[-] di[-]i cerie. iouia.
pacrsi. eituam am. aten
s uenalinam . ni ta[-]a. nipis. pedi suam

Struttura del testo

a) aisos pacris.
b) totai Maroucai lixs.
c) asignas ferenter auiatas toutai Maroucai loues patres
ocres Tarincris Iouias agine.
d) iafc esuc agine, asum ba[-]u [a]poleenis, feret regen[a]
di[t]i Cerie Iouia.
e) pacrsi.
f) eituam atens uenalinam ni ta[-]a nipis pedi suam.

Traduzione

a) (presi gli auspici:) gli dei (sono) favorevoli;
b) legge per il popolo marrucino:
c) le (ancelle) giovie di Giove padre dell’arce Tarincra assegnate
in servitù, dopo che il popolo marrucino avrà preso gli auspici
su di esse, siano poste in vendita;
d) le ponga in vendita, al giusto prezzo (?), la sacerdotessa giovia
per accrescere il tesoro di Cerere;
e) (presi gli auspici: gli dei) sono favorevoli;
f) (i Marrucini) hanno stabilito che nessuno tocchi il denaro ricavato
dalla vendita se non quando ne abbia il diritto.

L’iscrizione risale a circa la metà del III secolo a.C. ed è probabilmente conservata presso il Museo Puškin di Mosca.

Secondo Valerio Cianfarani:
Sul luogo del ritrovamento non è possibile giurare, né è possibile giurare sulle circostanze. Il Mommsen, il primo o fra i primi a occuparsi della lastrina, confermò con la sua autorità la voce che fosse stata rinvenuta nella Grotta del Colle a sud-est di Rapino, deposta in una tomba con monete databili sullo scorcio del III sec. A. C. In base a queste affermazioni fu intitolata “Tabula Rapinensis”, ma con ciò si commisero inesattezze e imprudenze.
La Grotta del Colle non è a sud-est di Rapino ma esattamente ad occidente, circostanza di qualche peso per la conferma del bronzo ad area storicamente marrucina, mentre diversamente si dovrebbe quanto meno porlo tra quella e l’area frentana. Assai singolare inoltre appare la collocazione di una tomba tardo italica entro una grotta e ancor più singolare, addirittura anzi incredibile, sarebbe la deposizione in una tomba di un testo cultuale che con questa nulla ha a che vedere. Sarà quindi prudente suggerire che la tomba e la grotta, già nota questa per leggende occasionate da oggetti antichi convogliativi dalle acque scorrenti dai prossimi pendii, siano state chiamate in causa come avallo dal possessore del bronzo, rinvenuto se non nella grotta, certo nella zona fra Pretoro e Rapino; mentre una corrispondenza di data fra questo trovamento e l’altro di Capracotta può insinuare il sospetto che sia stato il chiasso provocato dalle vicende di quello, a far uscire dalla sua oscurità questo, trovato chissà quando.

Secondo la descrizione di Tommaso Mommsen
Questa iscrizione è in una piccola tavola quadrata di bronzo di quella grandezza nella quale è effigiato il disegno; nella parte superiore si vedono due fori con dentro un filo di ferro per appiccarla. Fu trovata nelle vicinanze di Rapino (…) e principalmente fralle rovine dette da que’ contadini Città Danzica (…). Il sepolcreto di essa città fu nella così detta Grotta del Colle (…) dove sotto un mucchio di pietre che forse costituivano la cassa, si ritrovò uno scheletro e presso a lui un anello forse di avorio e la lastra di bronzo di cui si parla; la quale ora è nelle mani di D. Ignazio di Cicco ricco proprietario di Rapino. (…) Il bronzo, sebbene intero e poco danneggiato dalla ruggine, è di lezione sì grandemente difficile da disperarne in alcuni luoghi la vera interpretazione. I caratteri sono non incisi ma sottilissimamente graffiti così che appena appena danno un’impressione nello stannolo, ed il bronzo dappertutto è rigato con istrumento acuto, forse per levigarlo prima di scrivervi sopra, e là dove è un poco guasto dall’età, come negli ultimi cinque versi, riesce quasi impossibile di discernere le dette righe da’ veri caratteri. Quindi è ch’io non posso assicurare che non sia corso errore nella mia copia”. (“Sul bronzo di Rapino” – estratto dagli annali dell’Istituto di corrispondenza archeologica, vol. XVIII).

Civita Danzica – Tuta Maruca (ph. AA.VV., 2001)

Argomento centrale della Tabula – secondo Adriano La Regina – non è una “venditio servorum sub corona“, cioè una normale vendita di schiave, bensì l’istituzione della prostituzione sacra per incrementare le finanze del santuario di Giove padre. Alla questione viene preposta una sacerdotessa giovia, ossia del santuario, che amministra un tesoro particolare, quello di Cerere. Ciò richiama l’istituto del culto di Cerere e Venere particolarmente diffuso sia tra i Peligni sia tra i Marrucini [1].

La storica americana Stephanie Lynn BUDIN, nel suo “The myth of sacred prostitution in antiquity”, (New York 2008), – che abbiamo trovata citata da Alessandro Bencinvenga dell’Università degli studi di Chieti – esclude invece che il fenomeno della prostituzione sacra sia mai esistito, attribuendolo a un errore di interpretazione delle fonti letterarie ed epigrafiche e a proposito di Rapino sostiene che

Non c’è nessuna ragione per pensare che la Tabula di Rapino abbia a che vedere con la prostituzione sacra. La parola che indica la prostituta sacra – ancillae – non è neppure nel testo, ma è stato inserito da La Regina in base alla speculazione che questo fosse un ulteriore riferimento ad una istituzione che una errata lettura di altri documenti aveva creato.

E così Alessandro Bencinvenga è portato a riconoscere il ruolo di donne sapienti all’interno di collegi sacerdotali e scrive “…escludendo sulla scorta dello studio della Budin che potesse trattarsi di prostitute sacre … A mio avviso, le donne che entravano a far parte di questo collegio sacerdotale probabilmente ricevevano un’educazione che comprendeva sia aspetti più propriamente legati al culto (riguardanti le cerimonie, i riti, ecc.), sia nozioni pratiche che per noi (occidentali, cristiani e moderni) hanno poco a che fare con la religione e sconfinano semmai nella magia e nella stregoneria (quali la preparazione di filtri e antidoti), conoscenze che al tempo erano ritenute indispensabili per svolgere al meglio il proprio compito e che richiedevano comunque una grande perizia nel combinare insieme, e nelle giuste dosi, le erbe che crescevano e crescono ancora sulle montagne abruzzesi e che in molti casi ancora oggi assumiamo a fine pasto, sapientemente mescolate all’alcool, come una pozione magica per favorire la digestione…” (dal saggio “Le Paelignae anus di Orazio: maghe, sacerdotesse o prostitute sacre?”).

Dunque secondo questa interpretazione la legge sacra della Tabula Rapinensis stabilisce fondamentalmente che venga celebrato un rito regolato da giovani sacerdotesse in onore di Ceria giovia, al fine di “accrescerne la gloria” e prescrive inoltre, “che nessuno tocchi l’offerta dello scambio se non alla fine del giusto rito” [2].

E questa diversa interpretazione/traduzione suggerisce qualche diversa intuizione sul ruolo delle giovani Sacerdotesse e sulla finalità dei riti.

Nell’ “Arce Tarincra di Giove Padre”, la massima divinità celebrata sembra essere una divinità femminile, la regina Cerere di Giove (regen ceria iovia). Cerere è la divinità che presiede alla crescita delle messi, è la protettrice dei cereali, principale alimento delle comunità neolitiche. Tra la dea e la comunità c’è dunque uno scambio di doni. Nessuno può toccare il dono se non ha dato la sua offerta (giusto rito). Nessuno può appropriarsi indebitamente di ciò che non gli appartiene, che anzi appartiene alla comunità e in essa deve essere condiviso. La legge non parla di sanzioni. Semplicemente sembra ribadire un rito di gratitudine verso la Terra che elargisce i suoi frutti senza nulla chiedere in cambio se non un atteggiamento di condivisione.

Il messaggio che sembra provenire dalla Legge appare più che mai attuale: occorre rispetto verso la Terra per poter continuare a godere dei suoi frutti. L’atteggiamento predatorio che contraddistingue la nostra economia, va abbandonato.

Ma quale mistero nasconde ancora la Tabula dietro il suo aspetto rovinato e dimesso? Perché una legge sacra rogata dal popolo viene incisa “sottilissimamente” su una lamina in bronzo che non ha nemmeno lo spazio sufficiente per contenerla?

“Sembra essere stata scritta in fretta” hanno sommessamente osservato dei giovanissimi studenti ai quali gli insegnanti avevano affidato una ricerca e una riflessione sull’argomento.

Ma, soprattutto, perché è stata scritta? Il carattere predatorio di un nuovo ordine forse minacciava il regno di Cerere, il regno di Maruca? Occorreva, in quel momento, ribadire che esiste un equilibrio nella Natura che va rispettato?

Solo domande, a cui solo la riscrittura della storia dell’umanità da un’angolatura diversa, potrà dare forse qualche risposta.

Touta Marouca: il sito

Maruca regna su una città chiamata “Tuta’’. Il termine “Tuta’’, giunto fino a noi attraverso una lunghissima tradizione orale, rimanda alla “Touto”, l’unità sociale e amministrativa che caratterizza la società dei Sanniti, la grande famiglia etnica che ingloba il popolo Marrucino [3].

Il luogo è prossimo a quella Grotta del Colle [4] donde si disse provenire la Tavola Di Rapino. In quell’insigne documento del dialetto marrucino è per due volte ripetuta l’espressione <<Totai (o Toutai) Maroucai>>, equivalente al latino Civitas Marrucina; infatti alla italica Touta si dà comunemente significato sociale, non di luogo, ritenendola corrispondente piuttosto a cittadinanza che a città. A tale opinione, tuttavia, sembra porre una alternativa la presenza di un toponimo di questa falda montana, nella quale è un’area assai grande cinta di mura megalitiche e ricca di tracce di un abitato – quanto resta insomma di una vera e propria città – e il luogo reca tuttora il nome di Tuta Maruca’’ (V. Cianfarani in ‘’Culture Adriatiche d’Italia’’).

Il centro fortificato dei Marrucini [5], ancora oggi nominato come Piana della Civita o Costa delle Prete della Civita, è anche conosciuto come Civita Danzica o Civita de Tazze. (“Tazze” è forse un riferimento a “Tase’’?)

Veduta generale di Civita Danzica – Tuta Maruca (ph. AA.VV., 2001)

Si estende circa due Km a sud dell’attuale paese di Rapino, sulla calva sommità di tre colline, a sorveglianza della Valle di Rivo Secco. Permetteva l’unico facile attraversamento di tutta la Majella orientale verso la conca peligna.

Sono ancora visibili i resti della imponente cinta muraria costituita da grossi blocchi irregolari di pietra calcarea che si estende sullo scosceso fronte orientale per una lunghezza di circa un chilometro, un’altezza, in alcuni punti, di circa 3 metri ed una larghezza di un metro, un metro e mezzo. Sugli altri lati, la Piana è difesa da uno strapiombo naturale, e vi si poteva accedere attraverso tre vie. Sono ancora visibili, seppure con difficoltà dovuta alla intricata vegetazione, alcuni fondi di capanna costituiti da pietra levigata.

Nell’area sono stati ritrovati, tra l’altro, numerosi pezzi di ceramica grezza e massiccia che testimoniano la funzione di centro di raccolta della Civitas: in caso di pericolo vi si rifugiavano uomini ed animali che vivevano nell’ampia vallata sottostante.

Touta Marouca sembra sia stata frequentata fino all’VIII secolo d. C.

Rilievo del circuito murario di Civita Danzica – Tuta Maruca (ph. AA.VV., 2001)

Arbusto spinoso

E infine l’antico toponimo è ancora in uso per indicare un arbusto spinoso, comune in Abruzzo e nell’area mediterranea. Il suo nome scientifico Paliurus spina-christi ci indica innanzitutto la caratteristica dei suoi rami ricchi di spine acutissime. E`una pianta officinale infatti i suoi frutti in infuso hanno forti proprietà diuretiche (Paliurus: “pálin” = di nuovo e “oúron” = orina, far orinare di nuovo), mentre le foglie vengono usate in erboristeria per preparare dei rimedi contro la pelle grassa. I suoi frutti giovani sono commestibili; possono essere usati crudi in insalate (hanno un sapore simile alla mela) mentre tostati e macinati venivano usati come surrogato del caffè in tempi di carestia. La pianta ha inoltre un antico uso agro-pastorale: difatti il suo nome comune, marruca appunto, deriva dall’antica città di touta marouca, dove questa pianta veniva usata per costruire delle recinzioni inaccessibili per difendere i pascoli (grazie alle sue spine acuminate).

L’uso di questa pianta è molto antico infatti pare che già nel V. secolo a.C. fosse conosciuta sia dai greci che dai romani, che definivano marrucini i popoli che la coltivavano. I recinti di questi arbusti furono sostituiti solo con l’avvento delle reti metalliche in tempi recenti.

La Marruca in qualche dialetto abruzzese è chiamata vecache o bocache, termine che deriva dal greco e sta proprio a significare ferma-buoi; in altre località é pure chiamata tattazigne – che sta ad indicare i piatti bronzei delle bande e delle orchestre musicali – questa definizione é dovuta alla particolare forma dei suoi frutti. E proprio la forma delle sue drupe pare sia stata ispirazione sia come decorazione per i pettorali difensivi dei guerrieri italici che per gli ornamenti femminili dell‘epoca.

Fiorisce da maggio a luglio e le sue delicate infiorescenze sono particolarmente mellifere, il suo intenso profumo ci ricorda proprio il miele.

L’arbusto durante le stagioni, a febbraio, a maggio e agosto – (ph. Daniela Di Bartolo 2021)

Con l’arrivo della religione cristiana la marruca viene definita la pianta utilizzata per la corona di spine della passione di Gesù (“spina-christi”).

L’uso della pianta è attestato sin dal V secolo a.C. Greci e Romani chiamavano Marrucini il popolo la coltivava, nome derivato dall’antica città di Marouca dove era usata per costruire recinzioni per i campi in difesa del bestiame al pascolo. Si ritiene che da essa il popolo dei Marrucini prenda il nome [6].


Note

[1] “È ben probabile che la pratica, certamente non più in grande uso nel corso del III secolo a.C., venisse ripresa dopo la seconda guerra punica negli ambienti dell’Italia centrale, e in particolare tra i Peligni e i Marrucini, destinandovi prigioniere ridotte in schiavitù, con il fine di ripristinare la floridità di santuari decaduti per le devastazioni annibaliche” (da A. La Regina, 1997).

[2] Con una significativa forma di sovrapposizione di culto, ancor oggi a Rapino ogni 8 maggio si celebra il rito delle Verginelle le cui protagoniste sono le giovani donne del paese (fra i 6 e i quattordici/quindici anni oggi, ma un tempo di età quasi adulta) vestite di bianco e ricoperte degli ori di famiglia, o presi in prestito da vicini, amici e parenti.

[3] TOUTO: entità sociale “supertribale”: un insieme coeso di cellule sociali inferiori che si struttura su più livelli. Lo Stato sannitico era una lega di tipo federale (non strutturata su città-stato, ma piuttosto sull’organizzazione delle campagne in distretti rurali): una federazione di parti politico-etniche, dette “Touti”. Non esisteva una capitale federale: le riunioni politiche federali avvenivano in città scelte di volta in volta. Ciascun “Touto” aveva una località sacra, che fungeva da “centro amministrativo”, dove si tenevano le adunanze sia religiose che politiche, ma che non svolgeva le vere funzioni di “capitale”. Quindi, ogni “Touto”, nel quale esisteva un consiglio ed un’assemblea, era una repubblica e non un regno. Se mai vi furono “re”, tra i Sanniti, dovette essere in epoca antichissima. Ogni “Touto” era diviso in tanti distretti, chiamati ognuno “Pago” (da una radice IE *pak- = “insediarsi”). All’interno di ogni “Pago”, esistevano tanti piccoli insediamenti di pianura, detti ognuno “Viko”. Nel maggiore, esistevano i luoghi sacri comuni. All’interno di ogni “Pago”, esistevano anche insediamenti in altura, detti ognuno “Oppedon”. I medesimi, dalla metà del IV secolo a.C., erano tutti cinti da mura poligonali e svolgevano la funzione di controllo territoriale. In genere, venivano abitati e deputati a raccogliere gli armenti solo in caso di guerra (da D. Monaco, 2003).

[4] vedi su Preistoriainitalia.it, “La Dea di Rapino e la grotta del Colle” e “La Dea di Rapino“.

[5] Marrucini erano un piccolo popolo italico di lingua osco-umbra, storicamente stanziato nel I millennio a.C. in una striscia di territorio lungo le coste adriatiche, nell’attuale Abruzzo. “Marrucini” corrisponde all’endoetnonimo con il quale il popolo indicava se stesso, come attesta il Bronzo di Rapino riportando l’espressione “touta marouca”, “popolo (cfr. l’osco touto) marrucino”. Giacomo Devoto legge perciò “marrucino” come indoeuropeizzazione, tramite il suffisso -ni, di un più antico termine preindoeuropeo, marcato dal suffisso -co e adottato, già nella sua sede storica, da quel ramo degli Osco-umbri che si sarebbe storicamente caratterizzato dall’uso del dialetto marrucino: i Marrucini, appunto. Deriverebbe dal nome dell’antichissimo centro di Marruca (oggi colle di Rapino) sorto presso una grotta sacra dedicata ad una dea con lo stesso nome, forse una variante locale della dea italica Marica. Wikipedia.org/wiki/arrucini

[6] Acta plantarum; Aurelio Manzi – Flora popolare d’Abruzzo – Ed. Carabba – 2001; Orto Botanico Giardino della Minerva (SA) – Le piante. Foto e testo: Daniela Di Bartolo, 22.11.2021

Ernestina Cinosi


Bibliografia

  1. Alessandro Bencinvenga – “Le Paelignae anus di Orazio: maghe, sacerdotesse o prostitute sacre?” – in Antropologia e archeologia a confronto: Rappresentazioni e Pratiche del Sacro – Atti Incontro Internazionale di Studi, Roma 2011;
  2. Stephanie Lynn Budin – The myth of sacred prostitution in antiquity – New York 2008;
  3. Valerio Cianfarani – Culture Adriatiche d’Italia – a cura delle federazione delle Casse di risparmio degli Abruzzi e del Molise – 1970;
  4. Adriano La Regina – “La Tabula Rapinensis” – Tratto da I Luoghi degli Dei – Sacro e natura nell’Abruzzo italico – a cura della Soprintendenza archeologica dell’Abruzzo – Provincia di Chieti – 1997;
  5. Theodor Mommsen – Sul Bronzo di Rapino – dagli Annali dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica – 1846;
  6. Davide Monaco – I Sanniti – Il governo dei Sanniti – Isernia 2003;
  7. AA.VV. – Terra di Confine tra Marrucini e Carricini – Comunità Montana della Maielletta – Realizzazione editoriale Creative – Torrevecchia teatina 2001.
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