Vacuna, la dea che c’è e non c’è

Vacuna, la dea che c’è e non c’è
Immagine di antica dea italica (ph. Julianuc)

di Enrica Tedeschi

Chi la ritenne indigena e autoctona (Vespasiano e Tito Tazio) la definì figlia di Sabo, mitico re dei Sabini, e nipote di Sanco (dio dei giuramenti, principale divinità sabina maschile). Secondo altre narrazioni (Varrone e Dionigi di Alicarnasso), la dea sarebbe arrivata in Italia con i Pelasgi. In ogni caso, Vacuna possiede i tratti della grande madre mediterranea (Pestalozza 1964, 2019; Bonanno & Buttitta 2021). Del resto, la Sabina fu abitata fin dal Paleolitico.
È la dea dominante del pantheon del popolo sabino, le cui origini arcaiche erano legate alla cultura osco-umbra, e forse anche ai Greci di Sparta.
Gli autori classici, in specie romani e greci, l’hanno dipinta in stile impressionistico: antica, misteriosa, tenebrosa. Sostanzialmente, un’immagine sfocata. Incerta è forse l’aggettivo più ricorrente nella letteratura che la riguarda, come incerti sono i dati e le descrizioni, in ogni senso: iconografico, mitologico-narrativo, cultuale e geografico.
Nonostante la definizione di “madre degli dèi”, ella è sfuggente e inafferrabile: una visione effimera, segnata dal silenzio e dalla nebbia. Ma anche un’effigie su cui proiettare poteri taumaturgici multipli, per il sostegno e la protezione dei suoi devoti. Grazie alla sua polisemicità e polifunzionalità, è stata identificata con tante altre dee della classicità, ma ogni associazione con divinità romane e greche era radicata in istanze storico-politiche più che religiose e cultuali (Saggioro 2016).
In ogni caso, dopo millenni di silenzio, ora si è ridestata: l’attenzione degli studiosi, che è stata concentrata a lungo solo sulla cultura dei Romani e, al più, degli Etruschi, negli ultimi anni ha cominciato a rivolgersi agli altri popoli indigeni di età pre-romanica (Gentili, 2018), portando alla luce preziosi frammenti di culture arcaiche di grandissimo interesse. La narrazione degli indigeni, infatti, ha abbandonato il cliché che li definiva primitivi e rozzi, riscoprendo culture raffinate ed evolute. Come quella dei Sabini, che dettero linfa vitale e genio alla nascita di Roma, e furono grandi protagonisti delle vicende dell’Italia antica, operando mediazioni culturali e politiche fra le stirpi locali e i Romani.

Chi è Vacuna

Dal punto di vista strettamente tecnico, dobbiamo tener conto dell’opinione di Alessandro Saggioro, secondo il quale i dati in nostro possesso non ci permettono di stabilire collegamenti certi con Vacuna, “anche se il riferimento al dominio femminile nella documentazione letteraria, epigrafica e iconografica costituisce un indice non trascurabile” (Saggioro 2016: 189; trad.mia). Questa “incertezza”, tuttavia, Vacuna la condivide con la maggior parte dei miti-riti che sono giunti a noi dal passato remoto: l’antropologo e il sociologo direbbero che non abbiamo potuto intervistare i testimoni, non abbiamo potuto fare ricerche sul campo, né osservazione etnografica. Con i dati a disposizione, possiamo solo fare ipotesi più o meno realistiche. Ed è quello che faremo con l’incerta Vacuna.
Già per gli antichi la dea era un enigma. “Vacuna in Sabinis dea sub incerta specie est formata”, scrive Orazio: Vacuna è misteriosa, inafferrabile, indefinibile, quasi invisibile. Il suo santuario è fatiscente, diroccato, abbandonato. Ed è pure muta.
Gli autori che la descrivono non mancano di sottolineare che si tratta di una divinità antichissima e oscura. La dea sembra voler nascondere la sua identità, anche perché viene associata e confusa con altre divinità dell’Italia antica: Victoria, Bellona, Diana, Minerva, Cerere, Venere.
Come altre divinità sabine, preferisce che il culto a lei dedicato abbia luogo all’aperto, nelle radure che si aprono dentro i boschi. Tuttavia, non disdegna templi e santuari, le cui tracce stanno emergendo soprattutto negli ultimi anni, grazie a un rinnovato interesse archeologico (Nelli 2020; Borlenghi, Betori, Giletti 2020). Le sono cari gli alberi, le colline e soprattutto le acque.
L’iconografia che la rappresenta è scarsa, quasi inesistente. I tratti simbolici sono vaghi, dal momento che viene associata al ciclo della produzione agricola, con enfasi sulla fase finale del raccolto: tratto comune a quasi tutte le divinità femminili delle culture pre-moderne fondate sull’agricoltura. Tuttavia, alcune connotazioni le sono specifiche:

  • il focus sulla pausa che segue la fatica dell’ultimo raccolto, o dell’ora meridiana, l’ora senz’ombra, che comporta un’enfasi speciale sulla dimensione del riposo dopo il lavoro, sul vuoto che segue l’attività;
  • il legame con l’acqua, in specie fredda e in tutte le sue forme, dalla pioggia, alle sorgenti ai laghi, con enfasi sulle proprietà oracolari e taumaturgiche dell’elemento acquatico.

George Dumézil accoglie la lettura di Ovidio, quindi il concetto di vacuum e di vacuitas (assenza, vuoto), e rileva che l’invocazione alla dea è specialmente intensa a fronte del vuoto lasciato da qualcuno che ci è caro. Ci si rivolgeva a Vacuna per chiedere che un’assenza (dovuta a guerra, viaggio o malattia) non andasse a finire male. Grazie alla sua polisemia, la dea sarebbe stata capace di “riempire molte forme di vacuitas” (Dumézil 1985; Nicolai 2020). L’interpretazione di Frazer sviluppa il tema di un vuoto che viene riempito da un rinnovamento, seguendo lo schema dei riti di passaggio (van Gennep 1909), e mettendo in evidenza i poteri di rigenerazione della dea. La definisce “a medical goddess, endowed with healing power” (Frazer 1929).

Iconografia

L’immagine più diffusa è una moneta romana del 67 a.C. in cui sono espresse le identificazioni di Vacuna con divinità romane, specialmente con Victoria.

Moneta con l’effigie di Vacuna (ph. Panairjidde, 2005)

(Sul retro, l’aquila è un riferimento all’impero romano, ma anche alla natura di dea alata, che codifica la sua arcaicità.

Altre immagini sono di attribuzione incerta, anche se diversi studiosi si sono trovati concordi su determinate associazioni. Per esempio, su un muro della chiesa di S.Maria Assunta a Montebuono, il Guattani (1828) riconobbe Vacuna in un bassorilievo che rappresentava una donna austera seduta in trono. Un altro bassorilievo è stato individuato a Roccagiovine, sorta sull’antica Arx Iunonis, come stipite in una finestra del castello Orsini.
Lo studioso Giovanni Pansa (1920) identifica la dea in una statuetta di bronzo rinvenuta nell’agro reatino, descrivendola così:

“La statuetta, rivestita di bella patina verde, rappresenta una figura femminile in costume ionico, coperta dalla tunica o chitone sottoposto all’himation, il quale è chiuso sul davanti, lasciando scorrere sull’ampia piega del fianco destro una fascia ondulata, terminante a punta sino quasi alla metà della gamba (Guattani 1828; Pansa 1920). All’estremità inferiore del petto, nella parte corrispondente alla cintura, si scorgono delle pieghe convenzionali, rappresentate da solchi inanellati. Il complesso della testa è discretamente modellato, con i capelli composti sotto una tenia arricciata, la quale scende quasi radente alle sopracciglia. Gli occhi sono cavi, per ricevere forse i bulbi di vetro o d’argento ch’era uso di apporre. Il chitone e l’himation aderiscono quasi al nudo della persona, e vi traspaiono perciò nei risalti le forme del corpo e delle gambe e specialmente della gamba sinistra, in cui si nota la lieve sporgenza del ginocchio. […]. Ciò che, in fine, conferisce ad essa la nota più significante, per l’identificazione del tipo, è la presenza delle ali e quella di un pomo o, piuttosto, d’un melograno che sorregge con la mano destra.” (Nelli, 2020: 27).

L’attributo delle ali è molto importante: è un sicuro indicatore dell’arcaicità del culto di Vacuna. Le dee alate, associate al volo degli uccelli, evocano il tempo originario del pensiero religioso che associava al cielo, al sole e alle stelle il sacro femminile (ab illo tempore). Ed era un cielo non dualistico, come quello introdotto successivamente dal patriarcato. Il cielo femminile era un cielo che conteneva e abbracciava. Era sopra, ma era anche sotto, ai lati, tutto intorno. Un cielo avvolgente e non un cielo distante e divisivo come quello patriarcale, che opponeva alto e basso, maschile e femminile, giusto e sbagliato, bene e male. Le ali di Vacuna danno questo spessore e questa tensione a una divinità che, nello stesso tempo, è radicata nelle profondità più inaccessibili e misteriose del ventre terrestre.

I luoghi del culto

La dea giunge in Sabina lungo le vie della transumanza e della migrazione dell’etnia sabina, dalla conca aquilana fino alla valle del Tevere. Vacuna – agreste e acquatica – protegge anche le greggi. Lascia tracce di sé ad Amiternum, Borbona, Posta, Cittaducale, Cures, nella grotta di San Michele a monte Tancia, a Cerchiara di Poggio Fidoni (due altari con dedica).

Trebula Mutuesca
Orazio racconta di un tempietto dedicato alla dea, già in stato di abbandono, nei pressi di Rieti. Fra i diversi culti, individuati in diverse campagne di scavo, nel Santuario Trebulano (Trebula Mutuesca), spicca la sua presenza – sia pure in dialogo interculturale con Feronia, Mercurio e Apollo – soprattutto nelle iscrizioni vascolari. Sulla base dei frammenti di ceramica a vernice nera rinvenuti, Giulio Vallarino, a partire dal 2007, ha ipotizzato la presenza del culto della dea (III sec. a.C.). L’area del tempio è stata identificata nella zona in cui sorge la chiesa di S. Vittoria (Vallarino 2012). Ma è probabile anche che il santuario fosse in località Caporio, vicino a Cittaducale (nel complesso delle Terme di Cotilia). Scavi recenti collocano un santuario della dea presso Montenero Sabino (Borlenghi, Betori, Giletti 2020).

Aquae Cutiliae
In un famoso stradario medievale basato su un’antica carta romana (Tabula Peutingeriana), è segnalata una stazione termale (balneum), nella zona dell’attuale Cittaducale. Si tratta del sito di Cutilia, le cui acque lacustri, freddissime ma terapeutiche, sono citate da diversi autori, come Vitruvio, Plinio il Vecchio, Strabone, Macrobio, Varrone, Dionigi di Alicarnasso.
Il lago (oggi, Paterno) e una zona paludosa assai più vasta, definita Lacus Velini, erano considerati sacri per alcune caratteristiche che inducevano a riconoscere il segno del divino nelle stranezze e nei prodigi del territorio. Sulle gelide acque dell’odierno lago di Paterno sembrava veleggiare una stupefacente isola semovente, forse un tempo sito del santuario a Vacuna, abitata da spiriti femminili cui erano dovuti sacrifici e offerte: le Lymphae Commotiles.
Inoltre, il lago stesso, non grande ma con acque molto profonde, rappresentava un fenomeno geologico di vulcanesimo secondario, poiché derivava da uno “sprofondamento”: evento noto agli esperti come sinkhole (Nisio, 2014). La profondità e la presenza di acque sulfuree (ancora oggi visibili dalla via Salaria) erano interpretate come connessione diretta col mondo infero, quindi con poteri taumaturgici e oracolari.
L’area, che Plinio definisce “umbilicus Italiae”, incuteva timore e rispetto. È possibile, anche se non certo, che il santuario della dea Vacuna fosse ubicato proprio lì (Alvino-Leggio 2006). Il culto che vi aveva luogo, e che secondo Varrone era dedicato alle Lymphae Commotiles, doveva dunque essere di carattere taumaturgico e oracolare. La connessione fra Vacuna e le ninfe del lago sembrerebbe confermata da una moderna lettura del suo nome, che non sarebbe legato al latino vacuum, ma piuttosto a lacus e lacuna, giustificando la definizione di Dionigi di Alicarnasso che ne parla come “la signora del lago” (Prosdocimi 1989).

I Vacunae Nemora
Non solo le acque furono associate a Vacuna: anche i boschi e la vegetazione in generale. Ne parla Plinio il Vecchio, collocandoli sull’alta valle del Velino. Il culto veniva praticato presso piccoli altari allestiti nei boschi, ma probabilmente anche nelle grotte, come quella del monte Tancia frequentata fino agli anni Ottanta del Novecento. Probabilmente, anche le edicole campestri disseminate nella zona, e perfino le “madonne arboree” del reatino e della Sabina (Tozzi 2003) rappresentano tracce che la dea ha lasciato attraverso i secoli (Nicolai 2020). Gli studiosi moderni hanno individuato i Vacunae Nemora, in un primo momento, nel territorio di Rieti, in un’area che va da Montenero a Posta; più recentemente, in una vasta area che va dalle alte valli del Velino sino alla conca reatina. Tutti sono concordi riguardo a specifici siti in cui la dea era assiduamente venerata: Falacrinae, Forum Decii, Posta, Laculo, Aquae Cutiliae, Cerchiara (Tulli 2018).

I riti e le tracce

I Romani celebravano Vacuna, inglobata nel loro ricco pantheon, agli inizi di dicembre con i Vacunalia, festa di cui si sa poco. È possibile che a Roma il culto contenesse tracce, più o meno ricche, delle pratiche cultuali sabine e forse anche di quelle in capo ai popoli, come i Pelasgi, che abitarono il territorio prima dei Sabini. Non abbiamo prove certe sulla continuità del culto, tuttavia è importante considerare tutte le informazioni disponibili, per cercare di cogliere lo spirito, gli intenti e la struttura di fondo delle tradizioni devozionali rivolte alla dea.
Ovidio, nei Fasti, accenna a una connessione stretta fra il culto di Vacuna e il rituale delle Vestali. Il fuoco ardeva giorno e notte nell’Atrium Vesta del foro romano, custodito e sorvegliato dal collegio delle giovani vergini dedicate. Le Vestali compivano un rito quotidiano, che consisteva nel recarsi alla fonte sacra di Porta Capena. Esse attingevano alla fonte con appositi vasi che poi offrivano a Vesta (dea che Ovidio associa a Vacuna). Anche il popolo partecipava: i devoti si riunivano intorno ai falò o ai focolari domestici consacrati a Vacuna, i “vacunales foci”. La ricorrenza invernale era antichissima: i contadini sedevano intorno al fuoco e offrivano alla dea una patera di farro tostato o di pane cotto sotto le ceneri (Ovidio, Fasti, VI, 305-307).
Il poeta descrive anche un rituale che oggi chiameremmo “di bando” (se non di magia nera), in riferimento a una divinità che, se non è Vacuna, di certo le assomiglia molto.
Segnalando la natura silenziosa e umbratile di Vacuna, la storica Maria Concetta Nicolai esprime la sua convinzione che “qualunque siano le sue origini, le si addice perfettamente l’oscuro e femminile rituale descritto da Ovidio”:

Ecco una vecchia decrepita che siede in mezzo a fanciulle:

celebra un sacrifizio a Tacita, ma ella tace a stento,

e con tre dita dispone tre grani d’incenso sulla soglia

dove un piccolo topo s’è aperto un passaggio segreto;

poi con parole magiche lega dei fili a un oscuro fuso,

e fa girare nella sua bocca sette fave nere.

Indi brucia al fuoco la testa d’una sardina che ella

cuce trapassandola con un ago di bronzo e rivestendola di pece;

vi versa anche vino: e ciò che resta del vino

o lei o le compagne lo bevono, ma più ne beve lei.

“Ho legato le lingue nemiche e gli sguardi malevoli”,

dice la vecchia allontanandosi, e se ne va ubriaca. (Ovidio Fasti, II, 571-582).

La Nicolai ha ragione: i versi non sono esplicitamente collegati a Vacuna, ma la dea sabina ha tutti i tratti distintivi della dea Tacita, o Muta, come anche Vacuna viene chiamata. Ovidio ricorda la storia di Tacita-Muta, la ninfa del Tevere Lara che ha l’audacia di proteggere la ninfa Giuturna dall’aggressione di Giove adultero. Lara “non frena la lingua”, anzi avverte Giuturna dello stalking in atto, e Giove per punizione la rende muta. Il mito – di origine greca, e ripreso da Ovidio per illustrare le Feralie di febbraio che celebravano i morti – ha come sfondo il territorio laziale, nelle zone in cui è più ricco di acque, paludi e vegetazione. La ninfa, infatti, “ora si celava nelle selve tra boschetti di noccioli, ora si tuffava nelle acque sue familiari”. Il riferimento al regno di Vacuna è legato, nel rito riportato da Ovidio, alle fave e al pesciolino cui viene cucita la bocca. La presenza del fuso evoca una forma di magia squisitamente femminile contro la maldicenza e il malocchio. Le tradizioni folcloriche di molte culture associano tuttora le fave, sotto forma di dolci, ai morti e collegano le dee silenziose al mondo infero.
Senza entrare nel dibattito fra teoria antropologica del sostrato e teoria storica di Brelich (Spineto, 2021), il culto che è opportuno associare a Vacuna, ossia quello delle acque, vanta, secondo un folto gruppo di studiosi, tradizioni millenarie. Se queste siano state riscoperte ogni volta e destinate a nuove funzioni (teoria di Brelich e Pettazzoni), oppure abbiano attraversato ere geologiche modificando solo leggermente la forma e lasciando inalterato il contenuto (teoria di Pestalozza e Martorana), a noi importa relativamente. Ci interessa soltanto notare che, dal punto di vista dei paradigmi dell’antropologia e della storia delle religioni, i luoghi di culto centrati sull’elemento acqua derivano, compatibilmente con i cambiamenti del paesaggio, da liturgie e pratiche preistoriche, probabilmente neolitiche.
Per ricostruire i riti dedicati a Vacuna – grazie alla “inesauribile resistenza dei motivi mitici” (Seppilli 1977, 1990) – possiamo attingere alle descrizioni dei culti dell’acqua, per ricavarne gestualità, comportamenti individuali e collettivi, tipologia di offerte.
A Roma, per esempio, si usava purificare se stessi e gli oggetti (soprattutto le merci) immergendo un ramo di alloro nell’acqua sorgiva. Il ramo veniva poi agitato spruzzando l’acqua su cose e persone. Durante la festa dei Fontinalia a ottobre, in onore di divinità acquatiche come Egeria e Fons, si offrivano corone di fiori, gettandole nelle sorgenti sacre o deponendole accanto ai pozzi. Si offrivano capelli, in certi riti di passaggio.
Le ricerche archeologiche sulle Aquae Cutiliae, e sull’isola che danza sul lago abitata dalle Lymphae Commotiles, si prospetta come un percorso di analisi promettente, di tipo storico-comparativo. L’associazione di Vacuna alle ninfe del lago espande la visuale sul suo culto e ci permette di fare ipotesi per ricostruirlo, anche in assenza di dati archeologici certi.
Sappiamo che i riti acquatici in molte culture prevedono immersione, abluzione, tuffo; che nelle consacrazioni sacerdotali, abluzioni e bagni precedono l’uso di vesti nuove; che l’acqua ferma era sinonimo di contaminazione, mentre quella corrente, che si rinnova, era considerata molto potente perché capace di ripristinare uno stato di verginità, come accade quando si cerca la guarigione e il recupero della salute.
I residui della tradizione di Vacuna, rielaborata dai Romani e poi inglobata nella devozionalità popolare cristiana, sono stati individuati e studiati (Luschi 1988; Cenci 2009). Alcuni eventi folclorici tuttora attivi sono interpretati come “sostrato”, ossia complessi cultuali i cui riti-miti sono, di solito inconsapevolmente, in continuità con il passato. Tali sono i culti delle chiese di Santa Maria di Capodacqua e Santa Maria in Cesoni (Coarelli 2009), nonché quello della Madonna della Neve a Bacugno: e riti del solco diritto, offerta del manocchio e inginocchiamento del toro (Tozzi 2003). Infine, in territorio abruzzese, a Civita d’Antino, oltre a una lapide che ne documenta la presenza, la dea potrebbe essere associata al santuario montano della Madonna della Ritornata (noto per il culto delle acque e dei boschi), e perfino alla gara tradizionale del solco diritto, praticata a Rocca di Mezzo e a Civita Retenga (Nicolai 2020).

La simbolica

Il simbolismo di Vacuna si declina in quattro momenti:

  • il vuoto primigenio (vacuitas) e il riassorbimento della manifestazione
  • il viaggio del sole
  • la Grande Madre mediterranea
  • lo stato di coscienza e i riti di passaggio

In ognuno di questi momenti, l’acqua riveste un ruolo cruciale. L’importanza dell’elemento acquatico nel sacro femminile è ben descritto dalla psicologa Barbara Crescimanno a proposito delle ninfe siciliane:
Alle divinità acquoree femminili è riconosciuto il potere di dare (e ri-dare) la vita in un contesto in cui dimensione sacra e profana dell’esistenza non sono ancora scisse. Se ne trova testimonianza nelle comunità preistoriche e protostoriche precedenti alla transizione dal Paleolitico al Neolitico, cioè quel passaggio da stili di vita nomadi a stili di vita stanziali legati alla coltivazione e all’allevamento, in cui l’acqua diviene fondamentale per il ciclo agricolo. Ma questa idea perdura fino in età storica… (…) L’acqua è quindi percepita come elemento sacro, legato alla vita, alla morte, alla rinascita; inoltre, in quanto capace di rigenerare, diventa sostanza magica e medicinale per eccellenza: accanto a quelli fecondanti vi troviamo poteri di guarigione e di purificazione.” (Crescimanno 2017).

Vacuità e riassorbimento
Plinio definisce Vacuna silenziosa e incorruttibile. Numa Pompilio e Plutarco la chiamano “Tacita” o “Muta”. È evidente che il silenzio è il suo attributo principale, un silenzio che la mette fatalmente in relazione con il culto degli antenati, con il mondo dei morti, con la metà oscura dell’anno. Se Feronia – altra importantissima dea sabina, opposta e complementare a Vacuna – si esprimesse e si manifestasse in forma musicale, Vacuna sarebbe il battito vuoto che, nella misura dello spartito, significa silenzio e lo include nel ritmo. Ella sarebbe anche l’intervallo fra le note della scala, il mezzo principale con cui il compositore crea la melodia. Senza intervalli e senza vuoti, la musica sarebbe solo un suono continuo, ininterrotto. La musica è ritmo, cioè alternanza di suono e silenzio. Perciò, Feronia e Vacuna sono, l’una per l’altra, il rovescio della medaglia. La dea del fuoco e del risveglio primaverile, Feronia, rappresenta simbolicamente la manifestazione visibile, laddove Vacuna è l’archetipo della vacuità e del vuoto primigenio, quello spazio immenso e caotico, creato dal riassorbimento della “creazione” nelle tenebre acquose, da cui tutto riemergerà rinnovato e luminoso. L’immersione nelle acque simboleggia «la regressione nel preformale, la rigenerazione totale, la nuova nascita, perché l’immersione equivale ad una dissoluzione delle forme, ad una reintegrazione nel modo indifferenziato della preesistenza. E l’uscita dalle acque ripete il gesto cosmogonico della manifestazione formale» (Eliade 1992: 193).

Il viaggio del sole
Entro la cornice della ruota dell’anno (gli appuntamenti calendariali di ogni cultura), Feronia sigilla il semestre luminoso e solare, Vacuna quello notturno e lunare. Ma trattasi sempre del carro del sole che, finita l’estate, onorato il raccolto, attraversa la soglia critica dell’equinozio a Ovest, per andarsi a immergere nell’oceano ctonio, nel mondo della morte e della rinascita. Sarà Vacuna a sostenerlo nei sei mesi del tramonto e della notte, mentre Feronia lo aiuterà a rinascere forte come prima, riattraversando la soglia dell’equinozio di primavera a Est. Oppure, si tratta del seme, caduto a terra dalla pianta esausta con la frutta matura, che penetra dentro le zolle e, nel buio del ventre materno, vive una gestazione che lo lascerà rifiorire con la prima luce e il primo calore del nuovo anno. Il mito-rito della morte del dio vegetale, che va di pari passo col dramma solare, si addice alla coppia Feronia-Vacuna (Chiavarelli 2011).

La Grande Madre
L’etimologia Vacuna-lacuna (Prosdocimi 1969), che associa la dea all’acqua, le attribuisce come paredro Velinus, divinità del fiume e del monte omonimo. Acqua come liquido amniotico che forma il feto e poi lo spinge fuori, liberandolo e facendolo nascere, come suggerisce l’etimologia del nome della ninfa Egeria (egerere: mandar fuori). Egeria fu latina prima di essere inglobata nel pantheon romano ed era associata alla Diana d’Aricia, unendo in un’unica simbolica “la torcia accesa e l’acqua sorgente dal grembo della terra” (Seppilli 1990: 56). D’altra parte, la connessione con Victoria (Varrone) e con Nike (Dionigi di Alicarnasso), richiamano la Grande Madre alata, acquatica e ctonia, dominante in epoche davvero arcaiche. Una “vittoria” vegetativa più che militare.
Il collegamento stretto con le acque e i boschi, ma anche il significato del latino vacare (svuotare, liberare, purificare) suggerisce una dea guaritrice, capace di bonificare luoghi e persone, eliminando veleni e malattie. L’antichità di Vacuna e l’imbarazzo con cui la dea viene trattata dai Romani (a differenza di Feronia) ci dicono quanto il culto fosse arcaico e quanto fosse radicato ma già poco compreso. Secondo Dumézil, i Romani non svilupparono i culti dell’acqua, non tanto quanto altri popoli indo-europei. Roma non esaltò la sacralità del suo fiume e, soprattutto, non associò all’acqua nessuna divinità femminile rilevante (come invece avvenne in Mesopotamia o nella valle dell’Indo).
Il forte accento sulla sacralità dell’acqua nella cosmovisione dei Sabini, li distingue dai Romani. Erano noti, infatti, per essere un popolo pio, attento ai segnali divini, estremamente religioso.

Lo stato di coscienza e i riti di passaggio
L’enfasi sul vuoto e la vacuità suggerisce uno step della meditazione: quello in cui è la mente ad essere liberata, svuotata, purificata, per consentire al meditante di accedere alla sua verità interiore, al nucleo divino che si cela nel cuore. Di certo, l’acqua è l’elemento che più si presta alla pratica dei viaggi interiori: non solo ha un potere taumaturgico, ma anche un potere profetico, perché scende dall’alto o affiora dal basso, i luoghi degli dèi (Petraccia, Tramunto 2013). E Vacuna, con la sua vaghezza, ben rappresenta lo stato mentale del viaggiatore sciamanico, del meditante induista o buddista. Fra le devozioni a Vacuna, probabilmente avevano spazio pratiche di questo tipo, che erano forme di accesso al mondo sotterraneo dell’inconscio. Forse, nascevano da queste esperienze persino il mito dello sprofondamento e del tuffo, come riti di connessione con gli dèi e il mondo infero, largamente noti ai Romani (Seppilli 1990).
Con riferimento agli stati mentali, Feronia ben rappresenta il momento dell’ideazione, della creazione e della manifestazione di un’idea, progetto o intento. Vacuna, opposta e complementare, simboleggia la fase in cui la manifestazione si dissolve, viene riassorbita, torna alla vacuità e al silenzio. Fase della luna oscura, in cui l’esperienza del mondo si rigenera, assorbe potere ed energia per una nuova manifestazione. Questo è il ciclo dell’essere e della vita. Ma è anche una tecnica di meditazione, un lavorio psichico attraverso cui gli umani possono ripercorrere dentro di sé le fasi della creazione e, quindi, condividerne i processi, diventando co-creatori. In tutti i riti e in tutte le forme di meditazione, questo ciclo diventa una tecnica e un metodo per raggiungere gli stati coscienziali più sottili.
Da questo specifico punto di vista, Feronia incarna il testimone osservatore dei fenomeni e dei processi creativi, mentre Vacuna esprime il movimento contrario, dal manifesto al non-manifesto, dal visibile all’invisibile: il momento in cui il meditante arretra nella coscienza, dissolve l’ego e trova riposo e rifugio nell’immobilità della mente “vuota”. Mentre Feronia danza sul fuoco, Vacuna porta il dito indice alla bocca e invita a risolvere il movimento nel silenzio e nella vacuità. Se approfondiamo Vacuna nel frame della simbolica dell’acqua, emergono ulteriori e significativi elementi. Se l’elemento acqua, a livello cultuale e rituale, è particolarmente affine ai riti di passaggio, la necessità della fase della vacuità – intesa come momento critico e caos creativo che contiene tutte le possibilità – è cruciale. Il processo dei riti di passaggio è noto e consiste in tre fasi: la destrutturazione dell’ordine esistente, la fase caotica (che Weber chiama “carisma” e van Gennep “crisi”) e, infine, la ristrutturazione, che consente la costruzione di un nuovo ordine delle cose, che riguardi lo status individuale/collettivo (van Gennep 1909) o la morfologia di una aggregazione sociale (Weber 1922). L’acqua, fluida e incontrollabile, è appunto l’elemento caotico e critico che scompiglia le cose affinché affiori un nuovo ordine, una nuova organizzazione, tanto della psiche quanto della comunità. Senza il vuoto, il silenzio e le tenebre che Vacuna simbolizza, è impossibile realizzare il mutamento di status (la crescita personale, il nuovo patto di solidarietà nella comunità); è impossibile compiere la guarigione che il singolo o la collettività auspicano.

Enrica Tedeschi 2019-2022


Bibliografia

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  • Maria Donatella Gentili – “Prefazione”– in Tulli – 2018 – pp. 13-14;
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  • Licia Luschi – “Un caso di continuità di culto dall’epoca preromana al medioevo: Vacuna e Angitia” – in Il territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo nell’antichità: Atti del I Convegno Nazionale di Archeologia – Civitella Alfedena 1988 – pp.197-201;
  • Theodor Mommsen – Storia di Roma – Rusconi – Milano 2017-2019 – vol.1;
  • Pietro Nelli – Vacvna – autopublishing – Roma 2020;
  • Maria Concetta Nicolai – Femina in fabula. Dee, Sacerdotesse, Maghe e sacre Meretrici nell’Abruzzo italico – SuiDomina – Spoltore 2020;
  • Stefania Nisio – Gli sprofondamenti fra storia, mito e leggenda – Mem. Descr. Carta Geol. d’It. XCVI – 2014 – pp. 271-296;
  • Giovanni Pansa – Illustrazione di una statuetta arcaica di bronzo rinvenuta nell’agro reatino – in RAL vol. 29 – fasc. 3 – 1920 – pp. 76-88;
  • Umberto Pestalozza – Nuovi saggi di religione mediterranea – Bocca – Torino 1964;
  • Umberto Pestalozza – Matriarcato e divinità del mare – Saggi di religione mediterranea – Aseq – Roma 2019;
  • Maria Federica Petraccia e Maria Tramunto – “Il termalismo curativo nei testi epigrafici: il caso delle Ninfe/Linfe” – in Aquae Salutiferae Il termalismo tra antico e contemporaneo – Atti del Convegno Internazionale (Montegrotto Terme, 6-8 Settembre 2012) – M.Bassani, M.Bressan, F.Ghedini (a cura di) – Padova University Press – Padova 2013 – pp.175-192;
  • Aldo Prosdocimi – “Etimologie di teonimi: Venilia, Summanus, Vacuna” – in Studi linguistici in onore di V. Pisani – II – Paideia – Brescia 1969 – pp. 777-802;
  • Aldo Prosdocimi – (1989) “Le religioni degli Italici” – in Italia omnium terrarum parens. La civiltà degli Enotri, Choni, Ausoni, Sanniti, Lucani, Brettii, Sicani, Siculi, Elimi – Giovanni Pugliese Carratelli (a cura di) – Scheiwiller-Credito Italiano – Milano-Genova-Verona 1989 – pp.477-549;
  • Publio Ovidio Nasone – Fasti – I-VI;
  • Quinto Orazio Flacco – Epistulae – I-II;
  • Mauro Rubini e Ezio Fulcheri – “Resti umani rinvenuti presso le antiche terme di Cotilia (Cittaducale, Rieti VI-VII sec. d.C.)” – in Rivista di antropologia 66 – 1988 – pp.267-270.
  • Alessandro Saggioro – “Vacuna un cas d’école” – in Dieux des Grecs, dieux des Romains Panthéons en dialogue à travers l’histoire et l’historiographie – a cura di Corinne Bonnet, Vinciane Pirenne-Delforge e Gabriella Pironti – Belgisch Historisch Institut Rome – Bruxelles-Roma 2016 – pp. 187-198;
  • Anita Seppilli – Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti – Sellerio – Palermo 1977-1990;
  • Natale Spineto – L’eterno femminino mediterraneo – in Daniela Bonanno e Ignazio Buttitta – 2021 – pp. 123-137;
  • Ornella Terrosi Zanco e Lucio Visellio Varrone – “Divinità sabine o divinità etrusche?” – in Studi Classici e Orientali – Pisa University Press 1961 – 10 – pp. 188-208;
  • Mario Torelli – “Trebula Mutuesca, iscrizioni corrette e inedite” – in Rendiconti dell’Accademia dei Lincei – VIII – XVIII – fasc.3-4 – 1963 – pp.230-279;
  • Ileana Tozzi – “Il culto delle Madonne arboree nel territorio delle Diocesi di Rieti e Sabina” – in Storie del mondo – n.16 – 2003;
  • Tania Tulli – I Sabini e la sacralità dell’acqua. Feronia e Vacuna nelle fonti archeologiche e storiografiche – Amarganta – Rieti 2018;
  • Giulio Vallarino – “Iscrizioni vascolari dal santuario repubblicano di Trebula Mutuesca” –in Instrumentum inscriptum III – Giulia Baratta e Silvia Marengo (a cura di) – Macerata 2012 – pp.135-142;
  • Arnold van Gennep – Les rites de passage – Paris 1909;
  • Max Weber – Wirtschaft und Gesellschaft – Mohr – Tubingen 1922.
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