La statuina antropomorfa, in steatite, ha una forma cilindrica allungata e, seppur nella sua originalità, presenta alcune caratteristiche che rimandano al mondo delle Veneri, come la rappresentazione dei seni e del ventre leggermente sporgente, ma senza l’esuberanza tipica che di solito le contraddistingue.
Nella testa, di forma ovale, spiccano gli occhi: di grandi dimensioni e ben in evidenza, hanno un pronunciato sguardo fisso e sono resi attraverso una lavorazione a rilievo che va a creare, al contempo, un’arcata sopraorbitale marcata; allo stesso modo, anche il naso è di grandi dimensioni e quasi sproporzionato rispetto al resto del viso. Nella testa, inoltre, è delineata in maniera evidente la capigliatura, corta e compatta. Due profonde incisioni separano la testa dal collo e il collo dalle spalle e, da quest’ultime, partono le braccia, rese sottilmente, che vanno ad appoggiarsi sui seni, altra caratteristica tipica dell’iconografia delle Veneri. Come già notato, la figura presenta due piccoli seni tondeggianti al di sotto dei quali è reso il ventre, poco sporgente; le gambe sono assenti e la statuina termina in basso con una breve parte rastremata. Nel complesso, la figura rimanda a certe rappresentazioni ibride dove la figura femminile si innesta e si plasma in una forma fallica (come, ad esempio, nella statuina di Chiozza, nella statuina del Trasimeno o nel ciottolo antropomorfo di Fano), probabilmente a rappresentare la fusione della forza vitale femminile e maschile, matrice cosmica da cui hanno origine tutti gli esseri viventi. Inoltre, gli occhi fissi e il naso di grandi dimensioni potrebbero far pensare ad una rappresentazione simbolica e non è da escludersi che ad essere rappresentata sia una maschera rituale. Al contempo, è interessante notare come questi siano due elementi iconografici piuttosto diffusi nell’ambito delle rappresentazioni femminili preistoriche, soprattutto neolitiche, e, nel lavoro della Gimbutas, spesso sono associati alla rappresentazione della Dea Uccello e della Dea Serpente.
Note storiche
Questa statuina, come molte delle Veneri, è frutto di un ritrovamento fortuito: venne rinvenuta nel 1954 dal Sig. Luigi Ravaglia, durante dei lavori agricoli in frazione Prato (Bedonia, Parma). Successivamente venne donata a Severino Musa, medico condotto che con le sue ricerche contribuì in maniera importante a ricostruire il popolamento antico della zona. Egli segnalò la statuina alla Direzione del Museo dell’Antichità di Parma, ma di fatto rimase sempre in suo possesso, andando a far parte della cosiddetta “collezione Musa”, successivamente donata dai suoi eredi al Seminario di Bedonia, centro religioso e culturale che ospita, fra le varie cose, anche un museo archeologico.
SCHEDA
ULTIMI TESTI PUBBLICATI
VISITA LE SCHEDE PER OGGETTO