Il santuario arcaico di Polizzello fu realizzato nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., sull’acropoli dell’omonima Montagna, a circa 900 m.s.l.m., su preesistenti strutture di pianta rettangolare appartenenti alle fasi Tarda e Finale dell’età del Bronzo. Sui pianori inferiori si trovavano l’insediamento abitativo o Piano di città e la necropoli.
Lo studio di questo e degli altri santuari che a partire dall’VIII sec. a.C. sorsero sulle alture di alcuni centri della Sicilia centro-occidentale ha consentito di rileggere la storia dell’incontro tra la popolazione indigena dei Sicani e i Greci che instauravano le loro colonie sulla costa orientale dell’isola.
La grande area sacra (fig. 1) è racchiusa da un muro di temenos, cioè il muro che circonda lo spazio sacro separandolo da quello profano, lungo il perimetro interno del quale sono stati realizzati, tra l’VIII e il VI secolo a.C., sei edifici indicati con le lettere da A a F, tutti a pianta circolare, definiti sacelli, ad eccezione dell’ultimo di forma rettangolare. Lo spazio centrale, parzialmente lastricato, viene lasciato volutamente libero, probabilmente per le esigenze connesse allo svolgimento delle attività di culto e di funzioni di tipo rituale, testimoniate dalla presenza di fossette e piccole deposizioni.
La realizzazione del muro di temenos e l’adozione del modello architettonico a pianta circolare costituiscono due atti simbolicamente importanti: è la prima volta che uno spazio vuoto, distinto dall’area di insediamento abitativo, viene interamente dedicato al culto; all’interno di questo saranno poi costruiti diversi edifici a pianta circolare, anche di dimensioni monumentali.
Questo tipo di pianta si ricollega a una tradizione architettonica molto più antica, risalente alla forma della capanna circolare dell’età di Pantalica Nord, che ha caratterizzato l’unità abitativa dell’ambiente isolano per tutto il secondo millennio a.C.
La scelta della pianta circolare, ripresa anche in altri centri sicani della Sicilia centro-occidentale – fra i quali Sabucina (CL), Colle Madore (Lercara Friddi, PA), Monte Polizo e Mokarta (Salemi, TP), Monte Maranfusa (Roccamena, PA) Casteltermini (AG) – si ritiene sia legata a una forte necessità di affermazione della propria identità etnica, probabilmente minacciata prima dai Siculi, poi dai Greci nel VII secolo e infine dai Fenici nel V secolo a.C.
Ciò sembrerebbe confermato dalla sua riproposizione nell’oggetto di culto rappresentato dai numerosi modellini fittili di capanna a pianta circolare (fig. 2) rinvenuti in contesti a carattere sia sacro che funerario dei centri sicani.
Questi modellini, in associazione con il famoso bronzetto dalla particolare forma “a tridente” (fig. 3), il cui profilo ricorda quello di una figura con le braccia alzate, e con i numerosi tubi fittili o stands, rinvenuti negli strati più anteriori dell’acropoli, richiamano l’attrezzatura di culto dei santuari di origine cretese della Tarda Età del Bronzo o della prima età storica, chiaramente dedicati alla Dea Madre, l’antica divinità minoica della natura.
Le reminiscenze di lontane origini cretesi portano Dario Palermo a ritenere che nel santuario arcaico di Polizzello sia da vedere una delle più antiche testimonianze del culto delle Matéres o Metéres, portato in Sicilia dalle genti cretesi al seguito di Minosse, e che secondo Diodoro Siculo era ampiamente diffuso tra le popolazioni indigene dell’isola anche al di fuori del santuario principale del culto, che si trovava nel sito siciliano non ancora localizzato di Engyon.
I primi edifici ad essere costruiti, a metà dell’VIII sec. a.C., sono i sacelli E e C, di notevoli dimensioni e dotati di un grande focolare al centro: essi erano sede di rituali di tipo collettivo, prevalentemente basati sulla consumazione di carni animali.
La pratica dei pasti rituali era una sorta di collante sociale, un momento importante per riaffermare la coesione del gruppo e la propria identità.
Il nucleo originario del santuario di Polizzello, quindi, si connota come tipicamente indigeno, sia nella scelta delle forme architettoniche che nella scelta di pratiche cultuali che affondano le radici nella religiosità della Sicilia preistorica con aspetti legati al mondo della natura e della fertilità, come dimostrano anche le numerose deposizioni di ossa di animali sacrificati, spesso di piccola taglia, i corni di vacche e arieti e il forte accento posto sulla figura del toro.
Tra la metà del VII e gli inizi del VI secolo a.C., nel periodo di maggiore fioritura, nell’area sacra si susseguono le trasformazioni architettoniche più significative: vengono ridotte le dimensioni del sacello E; vengono realizzati due nuovi edifici circolari, di diametro minore, indicati con le lettere A e D, che nel corso degli anni subiranno ulteriori modifiche; il sacello A viene abbandonato a favore del nuovo sacello B, che a sua volta verrà abbandonato verso la metà del V secolo con tutto quello che conteneva. Dalla metà circa del VI secolo, per circa cinquanta anni, l’acropoli di Polizzello rimarrà deserta, probabilmente a causa della politica di conquista del tiranno agrigentino Falaride rivolta specificatamente alle aree centro-settentrionali dell’isola e in particolar modo contro la città di Himera. Sarà nuovamente frequentata e ristrutturata tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C., molto probabilmente non più da genti indigene ma greche, e solo per qualche decennio.
All’ampliamento e riorganizzazione dell’area sacra avvenuta nel VII secolo corrisponderà la differenziazione delle attività rituali svolte nei vari edifici e la prima comparsa, tra le offerte votive, di oggetti di ceramica anche di uso domestico, di produzione sia indigena che allogena, e oggetti di ornamento personale di tipo greco.
È in questo periodo che si definiscono le caratteristiche del culto che si svolgeva nel santuario di Polizzello, incentrato principalmente sull’azione rituale collettiva della macellazione e consumazione di carni animali di diverse specie e taglie, la cosiddetta “cucina del sacrificio” o “sacrificio del pasto”, accompagnato nel sacello B da attività di libagione di chiara derivazione greca. Questo rituale, svolto forse anche nell’ambito di culti ctoni (come sembra indicare la presenza di lucerne), prevedeva al suo termine la deposizione dei resti di pasto e del vasellame utilizzato nel corso della cerimonia, intenzionalmente spezzato e defunzionalizzato o collocato rovesciato sul terreno, come era consuetudine nella Creta minoica.
L’impressionante quantità e qualità delle offerte votive ritrovate denota un alto numero di partecipanti alle cerimonie religiose e un improvviso accrescimento della ricchezza di coloro che si radunano nel santuario che forse in questo periodo, come osserva De Miro, diventa una sorta di centro religioso pansicano, frequentato da genti provenienti anche da altri villaggi della Sikania. Relativamente agli oggetti di ornamento personale le deposizioni più cospicue sono state rinvenute nel sacello D, dove le attività di culto erano prioritariamente dedicate a divinità femminili: numerosi vaghi di collana di forma globulare, cilindrica o ovoide che venivano utilizzati come elementi di collane o come decorazione dell’ardiglione delle fibule; bracciali e pendenti; fibule del tipo a disco oppure “ad occhiali”; pendagli anche con figure zoomorfe come quelli in forma di scimmia e di ariete accovacciato, attestato in diversi contesti votivi di area greca e siceliota, e quello in forma di volatile del sacello A, di chiaro gusto levantino ma di probabile fattura locale, come fa supporre la resa dell’occhio mediante l’impressione di un cerchiello. Anche l’ansa in avorio decorata con cerchielli impressi e dotata di fori per il fissaggio richiama alcuni oggetti rinvenuti a Perachora (Peloponneso) ed Efeso (Turchia) e variamente interpretati.
Sono presenti anche barrette in avorio decorate a cerchielli incisi, utilizzate come ferma collane o distanziatori (fig. 4).
Per lo più questi oggetti erano realizzati in avorio, osso e ambra in quanto i Greci ritenevano questi materiali i più adatti ad essere offerti a divinità femminili, come dimostrano quelli presenti nei santuari di Artemis Orthia a Sparta e di Hera a Samo.
Non mancano oggetti realizzati anche con altri materiali: collane di conchiglie marine, pendagli in bronzo o in pietra, anelli digitali in bronzo ed elementi in pasta vitrea.
A volte numerosi oggetti di ornamento di uguale tipo sono stati trovati integri e intatti, altre volte conservati solo per metà o una parte. Anche in questo caso il senso della rottura rituale degli oggetti è analogo a quello del sacrificio degli animali alle divinità: un’uccisione come offerta estrema, la vita donata alla divinità.
Al mondo femminile rimandano anche diversi pesi da telaio di forma piramidale o troncopiramidale, con un foro passante sulla parte sommitale, deposti accanto a un piccolo focolare insieme a delle fuseruole e a una lucerna in posizione capovolta. Queste offerte, un’assoluta novità nel contesto cultuale indigeno, sono considerate da Palermo degli anathèmata (ex voto per grazia ricevuta o richiesta) probabilmente dedicati dalle donne a una divinità femminile in occasione dei momenti più importanti della loro vita, quali il matrimonio e il parto.
Un oggetto particolarmente interessante rinvenuto nei sacelli B e D è la “chiave di tempio” in ferro (fig. 5): queste chiavi, tipiche dei santuari ellenici dedicati a divinità femminili, sono infatti rappresentate, in alcune pitture vascolari, nelle mani delle sacerdotesse delle dee Atena ed Artemide. In assenza di tracce di sistemi di chiusura nelle soglie dei sacelli, sono state considerate come oggetti rappresentativi dello status sacerdotale femminile o come doni votivi da parte delle partorienti. La loro presenza in contesti indigeni è unanimemente interpretata come il prodotto di intensi rapporti tra greci e popolazioni autoctone, mediati e propiziati dalle donne, alle quali viene riconosciuto un ruolo attivo e importante nel creare relazioni tra le popolazioni autoctone e le colonie greche, anche attraverso la condivisione di comportamenti rituali e il riconoscimento e l’accettazione di piani comuni tra le divinità indigene e quelle greche.
L’edificio B, prevalentemente legato alla sfera maschile-militare, ha rivelato una straordinaria ricchezza di deposizioni sacre, con materiali indigeni e importati, soprattutto punte di lance in ferro, a volte intenzionalmente frammentate, armi di difesa, tra cui un rarissimo elmo in bronzo di fabbrica cretese databile alla fine del VII sec. a.C., statuette in bronzo di offerenti, due lamine in bronzo in forma di delfino guizzante, che dovevano costituire l’episema di uno scudo greco presente in una vicina deposizione, e la statuina fittile di un guerriero con spiccata itifallia, caratteristica legata alla fertilità maschile, il cui culto veniva praticato all’interno del sacello.
Per Palermo queste offerte trovano un’impressionante coincidenza con quelle descritte da Plutarco per il santuario delle Matéres di Engyon, dove le offerte votive più antiche e preziose erano proprio le lance e l’elmo depositati da Odisseo e dall’eroe cretese Merione in occasione del loro nòstos (‘ritorno’) da Troia. Sempre Plutarco, testimoniato da Stesicoro di Imera che visse negli anni in cui si formava il deposito dell’edificio B, afferma che il primo a porre l’immagine del delfino sullo scudo fu proprio Odisseo.
Queste coincidenze per Palermo sono ulteriori elementi verso l’identificazione del santuario di Polizzello come luogo di culto dedicato alle Matéres.
Non mancano, però, in questo sacello deposizioni legate al mondo femminile quali, oltre alla citata “chiave di tempio”, la doppia palmetta di grandi dimensioni in avorio e ambra (fig. 6), oggetto unico nel panorama della Sicilia arcaica, forse ornamento di un mobile ligneo o di uno scrigno che rimanda all’uso, documentato nelle raffigurazioni vascolari, di offrire alle divinità femminili cofanetti colmi di doni votivi in occasione delle nozze; la coppia di testine (fig. 6) in avorio, con anima in ferro e dal volto triangolare dalle spiccate caratteristiche dedaliche, sul quale gli occhi sono resi da due cerchielli impressi campiti da un puntino al centro, molto probabilmente la rappresentazione di figure femminili di natura divina. La resa dei dettagli, che richiamano gli oggetti di ornamento personale sopra descritti, riconduce a un tipo di fabbricazione certamente locale.
Per la quantità di votivi rinvenuta al loro interno, Palermo ritiene che i sacelli dovessero rivestire anche la funzione di veri e propri thesauroì, piccoli edifici che una città dedicava in un santuario come rappresentanza, destinati a contenere gli arredi necessarî alle cerimonie di culto e alle processioni.
Un ulteriore edificio è stato messo in luce da recenti indagini archeologiche svolte presso il Piano di città: si tratta di una costruzione rettangolare suddivisa in due vani e dotata di spazio esterno che non può essere considerata uno spazio abitativo di tipo domestico, ma una superficie funzionale allo svolgimento all’aperto dei sacrifici, ai quali seguiva la cottura e la consumazione delle carni. Il rituale prevedeva la raccolta del sangue che scorreva attraverso un rythòn metallico con il quale, verosimilmente, veniva irrorato un altare, al di sopra del quale sono state rinvenute diverse deposizioni.
Il rhytòn, spesso legato al culto della morte e all’eroizzazione della persona defunta, veniva poi ritualmente deposto all’interno tra due pietre appositamente scavate e rese concave. Attorno ad esso e all’altare sono stati rinvenuti, tra gli altri oggetti, astragali e pesi fittili troncopiramidali, nonché una ciotola con modellino plastico di capanna nel cavo, metafora della dimora della dea “assente”, che attesta che anche in questo spazio del Piano di Città si attendeva che avvenisse l’epifania della natura, così come sull’acropoli e nella necropoli, durante i riti funebri.








Note storiche
L’importanza del sito di Polizzello fu riconosciuta dagli studiosi alla fine dell’Ottocento, quando Antonino Salinas vi effettuò alcuni sopralluoghi e raccolse numerosi frammenti ceramici.
I primi scavi archeologici furono poi avviati da Paolo Orsi e Rosario Carta, in due brevissime campagne nel 1921 e nel 1926, che si concentrarono sulla necropoli e su alcune porzioni dell’abitato.
Gli scavi furono ripresi molto dopo nel 1980 da Ernesto De Miro e Graziella Fiorentini e, in maniera sistematica, negli anni dal 2000 al 2006 da Rosalba Panvini della Soprintendenza di Caltanissetta con la direzione scientifica di Dario Palermo, professore di Archeologica classica dell’Università di Catania. Queste esplorazioni hanno riguardato sia le necropoli che l’area dell’insediamento abitativo, e specialmente il pianoro sommitale dell’acropoli dove era stato precedentemente rinvenuto il grande santuario.
Ulteriori indagini archeologiche sono state svolte tra il 2013 e il 2015 nel Piano di città.
I Sicani erano una delle tre popolazioni indigene che, secondo Tucidide, abitavano la Sicilia insieme a Siculi ed Elimi al momento dell’arrivo dei primi coloni greci; da essi l’isola fu detta Sikania, denominazione poi ristretta alla parte centro-meridionale, corrispondente grosso modo alle attuali province di Caltanissetta e Agrigento, dove il popolo sicano era stanziato in epoca storica, forse a causa dell’eruzione dell’Etna, come sostiene Timeo o dell’arrivo dei Siculi, come sostiene, invece, Tucidide.
Secondo Diodoro i Sicani avrebbero abitato in villaggi sparsi nel territorio, senza costituire una sola entità politica; ogni comunità, spesso in lotta con le altre, aveva il proprio capo.
Antioco, storico siracusano del V sec. a.C., iniziava la sua storia della Sicilia con il regno di Kokalos, dinasta sicano che avrebbe accolto nella sua reggia di Inico il fuggiasco Dedalo, provocando la spedizione in Sicilia di Minosse, che poi vi avrebbe trovato la morte. A Dedalo viene attribuita la costruzione dell’imprendibile fortezza di Camico, vanamente assediata dal re cretese, e che oggi la supposizione più accreditata identifica con S. Angelo Muxaro. Luigi Bernabò Brea, confrontando i rinvenimenti archeologici dei due centri, individuò negli anni ’50 del secolo scorso la cosiddetta cultura di Sant’Angelo Muxaro – Polizzello, caratterizzata dalle sopravvivenze di elementi risalenti alle culture del Bronzo Medio e Tardo (1390-1000 a.C.), ancora impregnate di ricordi egei, su cui si sono innestati elementi nuovi, come la decorazione geometrica di derivazione greca realizzata però con la tecnica tradizionale dell’incisione e dell’impressione, o la decorazione dipinta.
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