In Sardegna il culto della Dea Madre si riscontra in ogni luogo. La Dea accompagnava l’intero ciclo di vita delle nostre Antenate e Antenati, dalla nascita alla morte, fino alla rinascita.
Svariati sono i ritrovamenti neolitici di statuine “steatopigie” (termine del linguaggio scientifico che in questo caso indica una ipertrofia delle masse adipose delle cosce e dei glutei) in parti diverse della Sardegna, che dimostrano l’unità culturale di questo periodo.
Nella tipologia in questione, nelle statuine prevalgono tre volumi principali: la testa, il busto-ventre e gli arti inferiori. Le Dee appaiono imprigionate in un blocco uniforme, assolutamente statiche. “Dee tutte d’un pezzo!”
Della Dea di Olbia Marjia Gimbutas scrive a pag. 200 del libro “Il linguaggio della Dea” (Fig. 315): “La Dea di Olbia, un nudo rotondo in atteggiamento rigido con le braccia aderenti ai fianchi, scolpito in pietra friabile. Addome e triangolo pubico combinati; cultura di Bonu Ighinu. Santa Mariedda, presso Olbia, Sardegna settentrionale; metà V millennio a.C.; alt. 8,3 cm”.
Forse non è un caso che sia stata creata a Olbia (in greco “felice”) 6500 anni fa questa Dea madre dal sorriso indimenticabile, che sembra ricordarci attraverso i millenni quanto sia importante scambiarci i nostri sorrisi.



Note storiche
L’importantissimo ritrovamento, avvenuto durante i lavori di ampliamento di una strada di penetrazione agraria nel territorio di Santa Mariedda, ha consentito agli studiosi di risalire al Neolitico Medio (4.000 – 3.500 a.C.), periodo detto della cultura di Bonu Ighinu. Il nome utilizzato per designare questa fascia temporale del Neolitico sardo deriva dal sito in cui vennero rinvenute le prime attestazioni archeologiche di presenza umana in territorio olbiense: la grotta di Bonu Ighinu (conosciuta anche col nome di Sa Ucca ‘e su Tintirriolu) in territorio di Mara, nel Sassarese.
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