Prano Muteddu Goni. I luoghi della Dea (CA)

Prano Muteddu Goni. I luoghi della Dea (CA)
Pranu Muttedu, menhir

di Alessandra Pilloni

Tratto da Marija Gimbutas Vent’anni di studio sulla DeaAtti del Convegno omonimo – Roma 9-10 maggio 2014 – Progetto Editoriale Laima – Torino

Goni è un piccolissimo paese in provincia di Cagliari, in quella zona della Sardegna che prende il nome di Gerrei. Su un altopiano di circa 500 m. sul mare si estende un bosco di sughere alternato a pascoli; un territorio a vocazione ancora oggi pastorale, dove si trova un bellissimo parco archeologico preistorico di circa 20 ettari.
Un’immensa area funeraria e religiosa risalente al 3200-2800 P.E.C. e realizzata dalle popolazioni che in Sardegna rientrano nella Cultura Neolitica di Ozieri-Sub Ozieri. È stata scavata dal prof. Enrico Atzeni a partire dagli anni ’80 e ha restituito materiali ceramici e litici interessanti. Lungo sentieri di campagna che si inoltrano nella vegetazione si susseguono tombe ipogeiche ed epigeiche imponenti: una necropoli che doveva essere importante per i vicini villaggi della zona, data la vastità dell’area e la particolarità dei monumenti.
Popolazioni semplici che vivevano in capanne vicine alle sorgenti e praticavano allevamento e agricoltura: esse riservarono al culto degli antenati mirabili sforzi ed energie costruttive, che hanno permesso la conservazione di quelle antiche vestigia fino ai nostri giorni. Qui infatti si celebrava un momento di passaggio essenziale per le comunità, quello della morte nella sua alternanza ciclica e nella sua intrinseca valenza rigeneratrice per la natura tutta; il legame con gli antenati manteneva il filo della continuità e rinsaldava i vincoli col territorio e con gli altri abitanti, rendendo evidente e profondo il passaggio umano sull’altopiano.
Le tombe rappresentano un momento di passaggio importante tra l’ipogeismo ed il megalitismo epigeico, arrivando a mescolarsi e influenzarsi a vicenda in forme spesso più uniche che rare. Rivolte ad est e a sud verso i punti di maggiore luce, seguono per lo più una pianta generale così caratterizzata: circoli concentrici di pietre a formare il sostegno del tumulo sovrastante, un corridoio d’ingresso per accedere e stanze funebri al centro. La copertura a tumulo doveva rendere tali monumenti perfettamente inseriti e compatibili con l’ambiente circostante, come ci mostrano esempi ancora integri di sepolture nord-europee nelle quali la vegetazione spontanea ricopriva le collinette artificiali, integrandole perfettamente nel paesaggio.
Si tratta di tipologie funerarie epigeiche abbastanza rare all’epoca in Sardegna, almeno rispetto alle più usuali domus de janas (case delle fate) di cui si contano migliaia di esemplari in tutta l’Isola. Così come ipotizzava Marija Gimbutas, è facile immaginare in esse un richiamo uterino nella forma generale, con un ingresso a corridoio che conduceva al rigonfiamento circolare del ventre, dove i defunti di fatto ritornavano per il riposo eterno. D’altra parte, ci troviamo in un contesto culturale segnato dall’adorazione della Dea (idoli e arte rupestre e ceramica ne sono un meraviglioso esempio) e caratterizzato da una cosmogonia materna in cui vita e morte rappresentano due estremi che si toccano e si fondono nel mistero del ventre femminile e sotterraneo.
Ecco come mai troviamo nell’area del parco uno dei più grandi ritrovamenti sardi di menhir, circa 60 esemplari ancora visibili. Realizzati in pietra locale arenaria, di tipo aniconico e proto-antropomorfo essi si inseriscono pienamente nel contesto delle religiosità fertilistiche e manifestano l’importanza attribuita al fattore vitale e rigenerativo delle energie sessuali.
Oggi risulta difficile immaginare la presenza di simboli di tipo sessuale in un contesto cimiteriale, ma all’epoca di cui parliamo i due aspetti apparivano indissolubilmente legati nella spirale della vita, simbolo peraltro ampiamente utilizzato nell’arte rupestre delle domus de janas. In coppia, a gruppi, isolati o in allineamento, queste antiche presenze segnano il paesaggio e vigilano sulla pace degli antenati tramandandone il ricordo nel tempo.

Su alcuni menhir è possibile identificare alcune coppelle, frequenti in questo tipo di monumento: traccia di peregrinaggio rituale, contenitore di offerte o disegno di precise costellazioni. Le piccole cavità lenticolari segnano in ogni caso il passaggio di qualcuno che ha voluto lasciare il suo segno sulla pietra sacra. Ancora oggi non è difficile vedere visitatori e visitatrici cercare il contatto fisico e diretto con i menhir nel tentativo di assorbirne l’energia, il potere, la fertilità in un continuum che stupisce per la sua persistenza e radicamento popolare.

Sono presenti anche le più tipiche domus de janas, le cellette ipogeiche artificiali scavate nelle rocce naturali e nei costoni rocciosi: qui sono in forma molto semplice, mono o bicellulare con apertura verticale o ingresso a pozzetto. Nel costone roccioso in cui si aprono le sepolture dominando di fatto tutta la zona circostante, c’è chi giura di vedere un’enorme protome antropomorfa che riprodurrebbe nella roccia la faccia della Dea Madre, caratterizzata dall’elemento orizzontale dell’arcata sopraccigliare e quello verticale del naso, così com’è rappresentata negli assai più documentati idoletti (ipotesi di Marcello Cabriolu).
Le domus tendono a riprodurre l’ambiente dell’abitazione e manifestano nella loro stessa natura sotterranea il concetto dell’accoglienza uterina, la porta degli inferi che si apre verso una misteriosa realtà ctonia, capace di generare nuova vita nell’oscurità del sottosuolo e nelle buie cavità dell’oltretomba. La domus è scura e positiva come l’humus fecondo, spesso in altri contesti colorata internamente di ocra rossa, come il sangue che accompagna la nascita e la morte. Alcuni addirittura sostengono in alcuni casi un possibile legame tra domus de janas e vicine fonti d’acqua, ipotizzando che esse dovessero volutamente riempirsi di quel liquido amniotico simbolico attraverso pendenze e canalette. E in effetti il parco sembra cantare le lodi della Dea anche nel suo aspetto naturalistico, nella varietà meravigliosa delle specie animali e vegetali che lo popolano a seconda delle stagioni: picchi e ghiandaie volano liberamente da una quercia all’altra, orchidee selvatiche, asfodeli, funghi e asparagi stupiscono per varietà e ricchezza.

Dicono che Pranu Muttedu voglia dire altopiano del mirto e quando soffia il vento il profumo della macchia mediterranea contribuisce infatti a creare quell’atmosfera magica e suggestiva capace di mettere in connessione col tutto e di rigenerare profondamente.

Alessandra Pilloni

Tratto da Marija Gimbutas Vent’anni di studio sulla DeaAtti del Convegno omonimo – Roma 9-10 maggio 2014 – Progetto Editoriale Laima – Torino