Si tratta di una dozzina di statuine in terracotta, trovate insieme ad altri oggetti riferibili alla sfera cultuale, recuperate nel villaggio neolitico di Sammardenchia, nel territorio del comune di Pozzuolo del Friuli, a circa 10 km. a sud di Udine. Il sito è stato oggetto di diversi sopralluoghi e campagne di scavo operate dal 1980 al 2005 a cura dell’Università di Trento, del Museo Friulano di Storia Naturale e della Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma.
Le statuine recuperate sono in buona parte frammentarie, l’area è stata sconvolta nel tempo da lavori agricoli che ne hanno compromesso l’integrità; sono realizzate in impasti non depurati, con superfici trattate sommariamente, raffiguranti per lo più la parte superiore del corpo, con caratteristiche femminili individuate da piccoli seni; il capo ed i tratti del volto, se presenti, sono accennati sommariamente, mentre alcuni esemplari hanno una testa mobile, mai recuperata ma desumibile dal foro presente fra le spalle che doveva servire per l’alloggiamento. Il contesto dei ritrovamenti ha fatto ipotizzare riti di fondazione e consacrazione dello spazio domestico, culti e rituali per propiziare attività domestiche e cerimonie comunitarie.
Tra le statuine, quella meglio conservata è un esemplare con struttura a “T”, busto cilindrico, braccia rese con appendici coniche, alto collo, testa cilindrica e profilo a becco d’uccello, rinvenuta negli scavi del 2002; manca del tutto la parte inferiore del corpo.
Altro esemplare è una statuina a corpo cilindrico con braccia appena accennate e disposte con uno schema a “T”, i seni resi con appendici plastiche ed un pendente a “V” tracciato con linee incise riempite di rosso; manca del tutto la testa e la parte inferiore del corpo. Simile a questa è un’altra statuina priva dei seni, con alcune incisioni che partono dalle spalle e si uniscono ad una incisione orizzontale all’altezza della vita, come fosse una cintura.
Dello stesso tipo sono altre due statuine a corpo cilindrico, braccia accennate e disposte secondo lo schema a “T”, piccoli seni plastici, si distinguono per la presenza di un foro tra le spalle per l’incasso di una testa mobile, in entrambi i casi andata perduta probabilmente perché era in materiale deperibile o di difficile conservazione.
Una statuina molto particolare ma purtroppo mal conservata, recuperata durante gli scavi del 1996, ritrae una figura con la testa appena accennata, il braccio destro frammentario e quello sinistro nell’atto di stringere al petto un fagotto, che potrebbe rappresentare un bambino, ipotesi difficile da confermare in quanto la parte superiore del fagotto è andata perduta. Se così fosse, si tratterebbe della prima raffigurazione di “maternità” nell’ambito del Neolitico Italiano, riscontrabile in siti riferibili alla cultura Vinca, come ad esempio la cosiddetta Madonna di Gradac del VI millennio a.C. o quella di Rast, riferibile al 5000 a.C. (M. Gimbutas, 2005). Nel corso degli scavi del 1992 è stato recuperato un anellone in pietra verde levigata (micacisto paragonitico), di forma circolare con un diametro esterno di circa 12 cm. ed interno di 6, con tracce di lavorazione. Il ritrovamento è particolare poiché all’epoca non era semplice realizzare un foro passante, data la mancanza di strumenti in grado di vincere agevolmente la resistenza della pietra da forare. L’oggetto era probabilmente usato come bracciale ornamentale e faceva parte di un corredo funebre di prestigio, visto il materiale utilizzato, proveniente dalle Alpi Occidentali (Piemonte e Val d’Aosta).
Tra i reperti sono da annoverare anche una serie di oggetti privi di caratteri antropomorfi identificati come esemplari di “ceramica falloide”, con una protome cilindrica su piede cavo o base piena e decorazioni incise lungo il corpo; sono oggetti a carattere cultuale, con le caratteristiche dell’attributo maschile, molto diffuse nell’ambito della cultura di Danilo proveniente dai Balcani.
Per quanto riguarda le ceramiche, queste sono caratterizzate da decorazioni con linee incise, generalmente due o tre linee affiancate, motivi a spina di pesce e a spirale, praticate su scodelle, piatti, vasi, boccali, tipici della cultura padana di Fiorano o dei Balcani nell’ambito della cultura di Danilo. Tra i reperti di industria litica vi sono tracce del substrato mesolitico per l’uso della tecnica del microbulino oltre a tracce tipicamente neolitiche con manufatti in ossidiana, selce o pietra verde, materiali che testimoniano i rapporti tra le comunità neolitiche friulane e quelle di altre regioni.
Note storiche
Il villaggio neolitico è stato individuato agli inizi degli anni ottanta dai signori A. Nazzi, R. Tosone e A. Candussio. Successivamente è stato oggetto di diverse campagne di scavo protrattesi dal 1985 al 2005, ad opera di Andrea Pessina, Alessandro Ferrari ed altri; le varie indagini hanno permesso di accertare che il sito è stato occupato per lungo tempo, circa 1100 anni tra il 5600 ed il 4500 a.C., su una superficie di circa 600 ettari, formando così uno dei primi villaggi neolitici nell’alta pianura friulana. L’area maggiormente indagata è stata quella denominata “I Cueis”, un ampio terrazzo naturale sopraelevato di pochi metri rispetto la pianura sottostante, tale da consentire il controllo di una vasta area circostante. Il toponimo friulano Cueis significa per l’appunto “colli” ad identificare queste alture naturali particolarmente fertili. Nel villaggio si praticava probabilmente la tecnica agricola itinerante; infatti in più punti si è appurato l’alternarsi di periodi di frequentazione antropica a periodi di abbandono e successivo riutilizzo, probabilmente perché lo sfruttamento continuativo dei terreni determinava l’esaurimento della loro fertilità e quindi costringeva a spostamenti su nuove aree non ancora coltivate. Per tale motivo si è ipotizzato che non si trattasse di un unico villaggio di così vaste proporzioni, ma piuttosto di piccole comunità mobili che si erano insediate ripetutamente negli stessi luoghi in funzione della migliore qualità del terreno. Buona parte dei resti di strutture indagate sono costituite da buche di varie forme e dimensioni, pozzi cilindrici con diametro tra 100 e 200 cm. o fosse oblunghe utilizzate come silos sotterranei per la conservazione dei raccolti; questi pozzi al momento dello scavo risultavano riempiti di carbone o frammenti ceramici e strumenti litici, a testimonianza del fatto che dopo esser stati abbandonati venivano utilizzati come discarica per i rifiuti.
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