Sull’allevamento dei piccoli umani
Questa scena è indicativa dell’immaginario – persistente in molti di noi – su come vivessero i primi umani. Un’immagine drammatica che evoca pericoli e l’eroismo maschile. E coincide con le idee dominanti in occidente sulla divisione del lavoro e sulla famiglia nucleare prevalenti negli anni ’60, quando emerse per la prima volta la teoria del cosiddetto ”uomo cacciatore”.
Le ricerche e le teorie più recenti, invece, la maggior parte delle quali create da donne, disegnano uno scenario molto differente, più simile a un anticonformista film indipendente che ad un blockbuster hollywoodiano, in cui la star è la Nonna.
Kristen Hawkes è un’antropologa dell’Università dello Utah. Cerca di tracciare il nostro passato studiando i moderni cacciatori come gli Hadza, che probabilmente hanno vissuto nell’area che è l’attuale nord della Tanzania per migliaia di anni. Gruppi come questo sono i più vicini a uno stile di vita simile a quello in cui sono vissuti i nostri primi antenati umani.
Durante molte e prolungate visite sul campo, Hawkes e le sue colleghe hanno annotato quanto cibo riportava a casa un ampio numero di membri della comunità hadza. E riferisce che, tracciando le percentuali di successo di ciascun individuo, “quasi sempre (gli uomini) non riuscivano a portare a casa un grosso animale”. I cacciatori uscivano quasi ogni giorno e registravano un successo in una percentuale corrispondente al 3,4 per cento delle escursioni. Questo significa che, almeno in questa società, le ipotesi imperniate sulla caccia non reggono. Se la sopravvivenza degli Hadza dipendesse dalla carne selvatica, sarebbero già morti di fame.
Allora se non era il padre a portare a casa da mangiare, chi lo faceva?
Dopo aver passato molto tempo con le donne nella loro ricerca quotidiana di cibo, le ricercatrici ebbero la sorpresa di scoprire che erano le donne, sia giovani che vecchie, a procacciare la maggior parte delle calorie per le loro famiglie e i membri del gruppo.
Per lo più scavavano tuberi da sottoterra, piuttosto difficili da estrarre. Il successo di una madre nella raccolta dei tuberi era correlato alla crescita del proprio bambino. Ma qualcosa di sorprendente succedeva quando la madre aveva un secondo figlio: la correlazione originale veniva meno e ne emergeva una nuova, con la quantità di cibo che era la nonna a raccogliere.
Hankes descrive questa scoperta come “stupefacente”. In queste società il foraggiamento delle nonne è più importante di quello dei padri per la sopravvivenza dei nipoti. Mamma e nonna provvedono a nutrire i piccoli, non l’uomo cacciatore.
Questa scoperta ha indotto Kristen Hawkes a rivoluzionare completamente ciò che pensava di sapere sull’evoluzione umana. Le nonne in questo tipo di ambiente sono cruciali per la sopravvivenza dei bambini. Perciò non è un caso che gli umani siano la sola specie di grandi scimmie in cui le donne vivono così a lungo dopo l’età riproduttiva. Se avere una nonna è così utile al fine della sopravvivenza dei piccoli, la selezione naturale può aver determinato una selezione di donne sempre più vecchie (caratteristica che poi sarebbe passata anche agli uomini).
Anche Sarah Hrdy, una primatologista alla U.C. Davis, studia le connessioni fra l’allevamento della prole e l’evoluzione umana. Ha dedicato molto tempo pensando e scrivendo sull’argomento. Sostiene che “una scimmia che metteva al mondo cuccioli così costosi, che crescevano così lentamente, non si sarebbe mai evoluta senza che le madri ricevessero un grosso aiuto.” Il primo fra questi aiuti, suggerisce, deve essere venuto dalle nonne, probabilmente insieme a molti altri aiutanti, padri, zie e zii, fratelli e sorelle.
Se figli e figlie erano allevati da altre persone oltre alla madre, Sarah Hrdy pensa che sia stato questo fattore, oltre al tempo della evoluzione, ad aver portato gli umani a sviluppare i profondi orientamenti sociali che caratterizzano la nostra specie – preoccuparsi così tanto dei pensieri e delle intenzioni degli altri.
Scrive: “Sovente cerchiamo di spiegare il fatto che gli umani siano buoni e cooperativi dicendo, beh, noi abbiamo bisogno di cooperare per avere successo nelle grandi cacce o per sconfiggere gruppi vicini. Ciò che non si spiega è perché questi tratti siano emersi così presto.”
Si riferisce ai bimbi e alle bimbe, e ai tratti sociali evidenti che possiamo osservare persino prima che camminino – come indicare, condividere e prestare attenzione ai segnali sociali quali il sorriso o disapprovazione. Dal punto di vista di un piccolo umano, la situazione di accudimento è molto diversa da quella di qualsiasi altra specie di piccoli di grandi scimmie. Scimpanzé bonobo, orangutan e gorilla sono tutti curati esclusivamente dalla madre. E queste mamme-primati sono estremamente protettive – qualche volta non lasciano che nessun’altra scimmia tocchi il piccolo per mesi dopo la nascita.
Per i piccoli umani invece, altri adulti sono normalmente presenti vicino a loro alla nascita o subito dopo per aiutare la madre e poi più tardi per aiutare e nutrirli.
Siamo la sola specie che fa questo. Hrdy sostiene che i bambini hanno un incentivo a prestare attenzione a ciò che altre e altri fanno intorno a loro, e pensano e sentono diversamente da quanto avviene nelle altre specie di scimmie. Sapere chi potrebbe aiutarti o ferirti e apprendere come chiedere potrebbe fare la differenza fra mangiare bene o essere affamati – forse perfino la differenza fra vita e morte, in certi casi.
Michael Tomasello è uno psicologo dello sviluppo alla Duke University e al Max Planck Institute. Dopo una carriera dedicata allo studio delle differenze cognitive fra bambini e scimmie, scoprì che molte scimmie non mostrano nessuna vicinanza nel livello di interesse a condividere e cooperare, due comportamenti che invece nascono molto presto negli umani: “Come individui gli umani non sono molto più intelligenti delle scimmie. Quel che fa la differenza è il fatto che noi possiamo mettere la testa insieme a quella degli altri, comunicare, collaborare e imparare dagli altri e insegnare agli altri. I piccoli umani sono adatti alla cooperazione e condividono intenzionalmente in modi che non appartengono alle scimmie.”
Tomasello all’inizio teorizzava che i tratti pro-sociali dei bambini servono a preparare i piccoli ai compiti che dovranno affrontare da adulti, in linea con le ipotesi dell’Uomo Cacciatore. Adesso pensa che la proposta di Hrdy – i bambini/e umane sono socialmente orientati grazie alle cure e al nutrimento condivisi da piccoli – sia una teoria più convincente. Questi tratti sorgono così presto nella vita umana che ha più senso pensare che sono adatti a superare le condizioni di vita dell’infanzia piuttosto che necessari ai comportamenti da futuri cacciatori adulti.
È la capacità di “mettere le nostre teste insieme” – come fa Tomasello – che ha permesso agli umani di sopravvivere, prosperare e andare per il mondo. Mentre gli uomini erano fuori a cacciare, le nonne con le bambine e i bambini costruivano le fondamenta per il successo della nostra specie – condividendo cibo, cooperando su livelli sempre più complessi e sviluppando nuove relazioni sociali.
In poche parole, il successo dell’umanità potrebbe essere dipeso interamente dal modo unico in cui le nostre antenate hanno cresciuto i piccoli. Grazie, Nonna.
John Poole
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