di Barbara Crescimanno
Il culto tributato alle ninfe testimonia un intreccio di piani – molto concreti e incarnati – che oggi sentiamo lontani e separati gli uni dagli altri (il mondo umano, divino, animale, vegetale, sacro e profano); testimonianza di un rapporto tra l’essere umano e il ‘Kosmos’ molto più fluido, rispettoso e salutare di quello attuale, che invece si rapporta al mondo naturale come estraneo e oggettivato rispetto a un ‘superiore’ ego umano.
La mia ricerca nasce dallo studio sulle pratiche musicali femminili siciliane relative al tamburo a cornice, ricerca che include sia le tecniche percussive che, più in generale, le pratiche culturali e cultuali che ruotano attorno a questo strumento.
Il tamburo a cornice è stato, sin dalla sua prima apparizione, uno strumento di culto; lo ha evidenziato la percussionista americana Layne Redmond nel suo testo “Quando le donne suonavano i tamburi”: il primo studio che ha collegato insieme, in modo complesso e articolato, aspetti musicali e sociali con gli studi di genere.
Partendo dalle forme contemporanee di danza e musica tradizionale in Sicilia abbiamo iniziato ad indagarne la storia e le relazioni con il sacro, scoprendo che le più antiche testimonianze archeologiche legate alla musica e alla danza in Sicilia mostrano una cultura profondamente intrecciata con il femminile, legata a delle entità divine chiamate ‘Ninfe’: figure marginali nella storia delle religioni ma dalla natura estremamente complessa, che, a un esame più approfondito, si rivelano personaggi chiave della vita cultuale quotidiana dell’isola; figure con caratteristiche ninfali sono in realtà attestate in tutto il Mediterraneo e in Europa fin dal Neolitico, e le loro tracce restano – seppur trasformate e rifunzionalizzate di epoca in epoca – fino ai giorni nostri.
Il termine ‘ninfa’ è ambiguo, poiché è stato usato per indicare esseri divini, umani e animali (come le api), mescolando piani diversi e raccogliendo un insieme simbolico che oscilla tra dimensione mitica e storica.
Sul piano divino, le Ninfe sono divinità femminili collettive, legate al mondo naturale, soprattutto alle acque (vedi “Ninfe ed acque in Sicilia. Una relazione sacra”). I Ninfei si trovano infatti in luoghi naturali come grotte e fonti d’acque sorgive, luoghi dove sono stati ritrovati accumuli di oggetti votivi a loro dedicati; quando si trovano in aree urbane, vicino a santuari di divinità di cui le Ninfe formano il coro (come Deméter e Kore, ninfa essa stessa), i Ninfei riproducono architettonicamente grotte da cui sgorga l’acqua.
Sul piano semidivino e umano, le Ninfe hanno raccolto competenze eterogenee, che insegnano a noi umani: sono pharmakeutriai, ovvero erboriste; apicultrici; kourothophos, cioè figure protettive dell’infanzia; sacerdotesse a guida dei riti femminili utilizzando strumenti come sostanze psicotrope, danza e ritmo per attivare stati non ordinari di coscienza; profetesse e ispiratrici di poesia attraverso una forma di sacra mania: la ninfolessia.
Queste figure sono presenti nei riti di passaggio (secondo la definizione di Van Gennep) in cui le donne cambiano fase della vita, come il passaggio dall’infanzia all’età adulta, il matrimonio, la gravidanza e il parto, e la morte, anche iniziatica. Ci soffermeremo su due aspetti di questi personaggi multiformi, iniziando la nostra storia dalla fine: il rito che accompagna la morte.
La figura della lamentatrice funebre è comune a tutto il continente eurasiatico; come la Banshee irlandese, essa appartiene ai contesti di trasformazione e transizione di status, di cui la morte costituisce un ‘archetipo’; ogni morte rituale necessita della guida di figure esperte in grado di gestirla in modo corretto: le figure ninfali sono appunto custodi dei passaggi, anche tra il mondo dei vivi e quello dei morti, proprio come le lamentatrici rituali. Da loro ricaviamo la connessione tra il SACRO FEMMINILE, la MORTE e le ACQUE, sotto forma di lacrime rituali.
Nei culti funerari attestati ad Ebla in Siria (III millennio a.C.) troviamo un peculiare insieme di logogrammi sumeri: “dam IGI: A”, cioè: ‘donna, occhio, acqua’; letteralmente “la donna dell’acqua dall’occhio”.
Sembra essere un insieme simbolico comune fin dal Neolitico anche in Sicilia, come mostrano le immagini stilizzate di occhi piangenti in forma di singole o doppie losanghe provenienti da vari siti neolitici siciliani.
Più avanti, in epoca greca arcaica, ritroveremo lo stesso simbolismo elaborato, come nei vasi funerari con praefiche in cerchio, circondate da segni a M che indicano acqua (cioè lacrime).
In tutta Europa e nel Mediterraneo troviamo infatti miti, fiabe, leggende e canti tradizionali in cui sorgenti, laghi, fiumi sgorgano dalle lacrime di donne legate alla magia o al mondo dei morti.
La prima lamentatrice funebre che troviamo in letteratura è Ninshubur: serva, consigliera, guerriera della Dea mesopotamica Inanna nel poema ‘La discesa di Inanna agli Inferi’.
La Dea, preparandosi al viaggio in cui morirà (per poi rinascere), le dice:
Ninshubur, mio costante supporto, mia sukkal che mi fornisce saggi consigli, mia guerriera che combatti al mio fianco, sto scendendo nel Kur, negli Inferi. Se non torno, Ninshubur, cantami un lamento. Suona il tamburo per me. Cammina intorno alle case degli dèi. Lacrime agli occhi, alla bocca, alle cosce.
È un preciso elenco degli elementi di un rituale in cui si mescolano il piano cosmico, il divino e l’umano: la fine periodica della fertilità sulla terra (come nel mito di Demetra e Kore), e al contempo le istruzioni rituali per il viaggio mistico delle iniziande e degli iniziandi (come nei Misteri Eleusini). Dopo tre giorni, Ninshubur inizia un lamento funebre con il tamburo, dando inizio al processo che porterà alla rinascita divina (e alla rinascita della vita sulla terra); questo mito richiama chiaramente altre morti divine e i lamenti funebri per Kore, Osiride, Attis, Mitra, Tammuz e per Cristo.
In Sicilia abbiamo Cyane, nome sia di una ninfa che di una sorgente nei pressi di Siracusa, che secondo il mito nasce proprio dalle lacrime della ninfa alla notizia della discesa di Kore agli Inferi. Gli specchi d’acqua sono considerati (non solo in Sicilia) aperture per il mondo ctonio. La fonte Cyane è infatti anche un luogo di iniziazione, e qui le ragazze siracusane, pronte a passare dall’infanzia all’età adulta, dedicavano i loro tympana (tamburi a cornice) alle Ninfe e ad Artemide; è il colore ciano (un blu scuro) e non il nero, il colore del lutto per i Greci.
L’originario rapimento mistico si trasformerà poi in un ratto (parola elegante per stupro), una successiva sovrapposizione a un precedente rito più arcaico. A causa dei cambiamenti sociali e dei rapporti di potere, sarà Ade ad aprire un baratro vicino alla sorgente, per scendere negli Inferi portando con sé Kore.
Come Cyane, anche Kore è una divinità delle sorgenti; il filosofo siciliano Empedocle la chiama con un nome probabilmente indigeno: Nestis.
“Quattro sono le radici di tutte le cose. Zeus lo splendente, Era portatrice di vita, e Aidoneo, e Nestis, che distilla di lacrime la sorgente mortale”.
Nestis/Kore fu patrona dell’antica Siracusa, che oggi è protetta dal Santuario dedicato alla Madonna delle lacrime: un ecomostro moderno.
Il nome della dea indigena sembra ritrovarsi in alcuni scongiuri siciliani contro il malocchio (guarda caso): tra le sante nominate in questi versi troviamo infatti anche Sant’Anastasia o Sant’Anistia, o in un caso direttamente Santa Nesti. Può essere una semplice coincidenza, tuttavia in questi scongiuri compare una figura con caratteristiche sorprendentemente ninfali: seduta in un giardino, custode di una foresta, protettrice di tre fonti speciali.
“Santa Nesti chi sarìa, nt’un jardinu chi sirìa e cent’arbuli guardava e tri funtani avìa una curreva latti, una meli, una uogghiu […]”
Perché il giardino?
Anche Kore è ritratta mentre raccoglie fiori nel prato di Enna.
Le piante del giardino delle Dee/Ninfe (pensate a Flora, a Calipso, a Circe, a Medea, a Europa…), che nel nostro immaginario sono semplicemente un elemento decorativo, sono in realtà piante medicinali o psicoattivanti, al centro di complessi sistemi simbolici, e le dee erano pharmakeutriai: creatrici di farmaci. La raccolta e la trasformazione officinale di fiori, piante, radici era una preparazione alla katagoghe, la periodica ‘discesa’ di Kore/Nestis agli Inferi per diventare Regina del mondo dei morti, una Banshee.
Il fiore raccolto al momento del ‘rapimento’ è un narciso, pianta psicoattivante da cui vengono i nostri ‘narcotici’; a Demetra e Kore è sacro il papavero da cui venivano ricavate sostanze oppiacee; la melagrana era usata per le sue proprietà regolatrici degli stati depressivi; la segale cornuta, che cresce sulle graminacee, era usata per ricavare l’ergot, principio attivo del moderno LSD; il rapimento risulta dunque essere un ‘rapimento estatico’, uno stato non ordinario di coscienza attivato da piante enteogene, percussioni e danza.
Sembra che anche in Sicilia e in Magna Grecia, come ad Eleusi, vi fossero rituali misterici: erbe e fiori, danza e musica erano al centro degli Anthesforia (fase iniziale delle Koreia, feste siceliote in onore della Vergine divina); tali feste erano una delle attività iniziatiche delle giovani, e rievocavano il momento del mito in cui Kore e le ninfe danzano e raccolgono fiori sul prato di Enna, subito prima del rapimento.
La Parthenia (‘verginità’) sembra essere un percorso di formazione iniziatico i cui strumenti erano la musica, la tessitura, l’utilizzo di piante medicinali. Diodoro narra che Artemide e Atena arrivano in Sicilia proprio per partecipare della Parthenia di Kore:
“Si racconta che Atena e Artemide, allevate insieme a Kore perché partecipi della medesima Parthenia, solevano con lei raccogliere i fiori e preparare insieme il peplo per il padre Zeus”. (Diodoro Siculo, Bibl. Hist.)
In Sicilia troviamo numerosissime triadi rappresentanti, molto verosimilmente, ATENA, inventrice dell’aulos e patrona della tessitura; KORE, pharmakeutria e ierofante dei misteri, che tiene un fiore o un frutto in mano; ARTEMIDE il cui strumento rituale è il tympanon, che presiede ai riti del parto e dell’iniziazione delle fanciulle (aulos e tympanon verranno poi usati anche dalle Baccanti in ambito dionisiaco).
‘Kore’, solitamente tradotto come ‘la ragazza’, significa anche ‘pupilla dell’occhio’ (da cui nascono le fonti). In tutta la Sicilia le numerosissime Ninfe indigene, come Ciane e Nestis, erano l’essenza stessa del paesaggio, di sorgenti, laghi e acque calde: un territorio considerato sacro; il corpo divino come fonte incarnata (vedi Mappa sulle Dee in Sicilia).
Allo stesso modo in cui le sciamane preistoriche usavano il tamburo come strumento per viaggiare tra i mondi, come Ninshubur suona il tamburo per riportare in vita Inanna, anche in Sicilia le Ninfe, sia come figure mitiche, sacerdotesse o devote, erano tamburelliste.
Nel loro culto (come in quello delle grandi dee a loro legate) si praticavano rituali con tamburi, aulòi e danze: sono state ritrovate migliaia di statuette e triadi di musiciste e tamburi a cornice, a dimostrazione di una pratica estremamente diffusa e popolare. Accanto a queste, pochissime, ma significative, tracce scritte (poiché le pratiche femminili venivano trasmesse oralmente e quindi spesso sfuggivano alla documentazione).
«Su una delle sette isole Eolie, chiamata Lipari, c’è una tomba; non è sicuro avvicinarsi a quel luogo di notte: in effetti, si sentirebbe distintamente un suono di tympanon e kymbala e risate in mezzo al frastuono e al suono dei crotali» (Pseudo Aristotele, De mirabilibus auscultationibus, IV secolo a.C.).
Ritroveremo simili pratiche ancora nel medioevo siciliano, alle cerimonie funebri per i re normanni Guglielmo I e suo figlio Guglielmo II, a Palermo.
“Durante tutti e tre i giorni, donne e nobili matrone, soprattutto saracene, per le quali il dolore per la morte del re era sincero, vestite di sacco e con i capelli arruffati, giorno e notte, camminando in massa, riempirono di grida l’intera città, rispondendo con canti flebili al triste suono dei tamburi di una moltitudine di ancelle e schiave” (Hugo Falcandus, Liber de Regno Siciliae, XII secolo).
Chi sono le ancelle e le schiave che suonano i tamburi per le nobildonne siciliane? Non lo sappiamo con certezza, ma è interessante notare che avrebbero potuto essere sia cristiane che musulmane o ebree, perché le donne di tutte e tre queste fedi religiose, che convivono più o meno pacificamente sull’isola in questo momento storico, condividevano all’epoca la pratica del lutto funebre con canti e tamburi, pratica davvero molto più antica delle tre religioni monoteiste.
Le donne continuarono a piangere ritualmente nei secoli successivi, nonostante le opposizioni e i divieti dei leader cristiani, musulmani ed ebrei. Conosciamo le loro pratiche, infatti, quasi solo grazie ai divieti nei loro confronti, iniziati nella Grecia classica con Solone, proseguiti con i primissimi Concili della chiesa (come quello nestoriano del 576), e ripetuti fino al 1600 inoltrato: un evidente segno che i riti funebri continuarono comunque ad essere praticati per secoli e secoli.
Per raccontare soltanto della ‘nostra’ storia, la società cristiana occidentale represse ferocemente le manifestazioni femminili di dolore: esse erano considerate in contraddizione con l’idea della vita eterna e della sopravvivenza dell’anima individuale; ma soprattutto (e per tutte e tre le religioni monoteiste), il lutto femminile è una chiara testimonianza di una non autentica conversione alla ‘vera’ religione, oltre che, soprattutto, un potente rituale pubblico del nemico numero uno dell’ortodossia: le donne.
La disperazione di fronte alla morte sarà dunque consentita solo nello spazio liturgico della Settimana Santa, per la morte di Cristo; il lamento funebre sarà mascolinizzato e clericalizzato e il lutto pubblico femminile sarà assolutamente vietato per evitare che danneggi il ‘giusto ordine’ della società maschile.
Così, da un certo punto in poi, le pratiche femminili continuano a ritualizzare il momento della morte solo negli ambienti domestici, in forma estremamente modesta, non più corale, e senza tamburi.
Il concilio di Trento (1545-1563) è arrivato a vietare la danza e la musica non sacra e non ortodossa, ritenendole atti ispirati dal demonio. Il tamburo a cornice, un tempo strumento rituale, è stato estromesso dai luoghi di culto. Ma per il Carnevale (il reale Capodanno del mondo agricolo), ancora fino al secolo scorso, in Sicilia si praticava – e si pratica ancora in Campania – un rito funebre per voci femminili e tamburi: il Carnevale morto veniva pianto con canti osceni carichi di doppi significati, che ricordano le antiche aiscrologie, pratiche oscene per i culti di Demetra.
Insieme alla morte, l’altro passaggio di status e archetipo fondamentale è la nascita: il viaggio sciamanico e la discesa agli Inferi sono infatti costruiti sulla fisiologia del parto (come dimostrano esemplarmente gli studi di Stanislav Grof). Con la nascita si chiarisce definitivamente l’immagine simbolica del femminino sacro: è la stessa Dea la Soglia tra i mondi, e le Ninfe le sue custodi. Lasciatemi raccontare come.
Nell’Odissea troviamo la descrizione più famosa di un Ninfeo, quello dell’isola di Itaca:
“…In fondo al porto c’è un ulivo dalle foglie sottili e vicino ad esso una graziosa e oscura caverna sacra alle ninfe chiamate Naiadi. All’interno ci sono crateri e anfore di pietra, dove le api accumulano scorte di miele. All’interno ci sono enormi telai di pietra e lì le ninfe tessono stoffe color porpora marina, una meraviglia da vedere. L’acqua scorre incessantemente. La grotta ha due porte, quella da nord, un sentiero per la discesa degli umani, mentre l’altra, verso sud, è divina, e non la percorrono i mortali”.
Una grotta da cui sgorga una sorgente, e in cui si trovano due porte, due passaggi.
Possiamo pensare che si tratti solo di un’invenzione letteraria, eppure abbiamo visto che il Mediterraneo è pieno di Ninfei reali.
Accanto all’acqua sacra che sgorga dagli occhi, abbiamo dunque l’acqua sacra da una grotta, cioè il liquido amniotico che sgorga dalla vulva divina, quando ‘si rompono le acque’ e avviene il parto. È attraverso questo grembo divino che ogni essere vivente passa prima di nascere, concretamente o ritualmente. Quello che oggi consideriamo solo un frammento di paesaggio, è stato vissuto dalle nostre antenate come parte del corpo divino, carnalmente assimilato ai sacri corpi delle donne.
Questa percezione è estremamente radicata nel nostro passato: in una grotta paleolitica nell’area di Fontainebleau è stata rinvenuta quella che possiamo considerare una installazione nel moderno senso artistico: tre fessure nella roccia che evocano un triangolo pelvico. Non è una formazione rocciosa naturale; le fessure sono lavorate artificialmente, insieme a molti altri interventi antropici per modificare in modo sorprendente l’idrologia del riparo e drenare l’acqua in modo che scenda proprio attraverso le linee che rappresentano la vulva.
Come accade per la morte, anche la Porta della nascita è associata al tamburo, in varie figure divine: nella siro-palestinese Asherah; nell’Iside egizia, per cui la dea Hathor suona il tamburo al momento del parto; o nella tamburellista Artemide che, appena nata, aiuta la madre come levatrice divina a partorire Apollo (vedi Atlante del Tamburo a cornice in area euromediterranea).
Il simbolo della Sacra Porta sarà rifunzionalizzato nel culto cristiano: qui gli Inferi vengono trasformati in inferno e le antiche guardiane della soglia, con i loro tamburi, diventano streghe; nella Sicilia moderna e contemporanea le chiameremo Donni di fora, ‘Signore da fuori’, metà donne e metà animali, amanti della musica e del ballo, tamburelliste, portatrici di ricchezza o di sventura, protettrici dei bambini; tuttavia, il nome mistico della Vergine Maria è ancora Ianua Coeli (dal latino ‘porta del Cielo’): l’unico passaggio riconosciuto come possibile oggi è verso il Padre celeste, ma l’iconografia rimane la stessa.
Infine, è interessante notare come la losanga che abbiamo visto usata come stilizzazione dell’occhio è stata riconosciuta da Marija Gimbutas anche come stilizzazione della vulva che dà la vita: un simbolo abbondantemente attestato in molte aree dell’Europa antica e del Mediterraneo. Due simbologie ‘confluenti’ per la Porta della morte e per la Porta della nascita, entrambe parti di un corpo divino.
Questa sovrapposizione simbolica tra vulva e occhio chiude un cerchio e unisce due opposti che siamo abituati a pensare come separati; la si ritrova curiosamente anche in un moderno modo di dire siciliano, in cui il sesso femminile è chiamato ‘u talìa nterra’: ‘quello che guarda verso terra’.
Nelle culture antiche avevamo molteplici possibilità di passaggi e trasformazioni guidati ritualmente: tra le varie età della vita; tra i tre mondi (Inferi, Mondo, Cielo); tra il piano umano e quello divino/animale/vegetale (si pensi alle trasformazioni delle sciamane in animali, alle metamorfosi delle Ninfe in alberi e piante medicinali, a figure ibride come le sirene); anche tra il maschile e il femminile (le figure androgine o ‘genderfluid’ erano ritenute esseri speciali, in grado di varcare le Soglie).
Oggi abbiamo demonizzato ogni non conformità alle regole e abbiamo perso la capacità di varcare in sicurezza queste porte, e persino di immaginarci come viaggiatrici tra i mondi, in cambio di una normatività religiosa, psicologica e di genere che è una gabbia, e che taglia pericolosamente fuori parti della nostra psiche.
Le nostre antenate, abituate a praticare questi ‘luoghi di incertezza’, erano addestrate a muoversi con rispetto, a gestire la paura dell’ignoto e della morte, a sentirsi connesse con il Tutto.
Le paure non correttamente affrontate hanno bisogno di aggrapparsi a certezze che diventano cesoie teoriche e concreti muri di cemento; muri che inventano separazioni tra giusto e sbagliato, buono e cattivo, sacro e profano, vita e morte, e tra noi e gli altri (e tra parti di noi stesse, dentro di noi). È il momento di tornare a praticare l’incertezza dei luoghi delle soglie.
Barbara Crescimanno – 2022
Bibliografia
- Barbara Crescimanno (a cura di) – Il sacro al femminile. Figure e forme rituali in area mediterranea fra memoria e contemporaneità – Istituto Poligrafico Europeo 2021;
- Marija Gimbutas – Il linguaggio della Dea – Venexia 2008;
- Stanislav Grof – L’ultimo viaggio. La coscienza nel mistero della morte – Feltrinelli 2017;
- Jennifer Larson – Greek Nymphs. Myth, Cult, Lore – Oxford University Press 2001;
- Pier Luigi José Mannella – Il sussurro magico. Scongiuri, malesseri e orizzonti cerimoniali in Sicilia – Museo Marionette A. Pasqualino 2015;
- Layne Redmond – Quando le donne suonavano i tamburi – Venexia 2021;
- Francesco Salvestrini, Gian Maria Varanini e Anna Zangarini (a cura di) – La morte e i suoi riti in Italia tra Medioevo e prima età Moderna – Firenze University Press 2007;
- Medard Thiry, Marie Nieves Liron e Marie-Claude Auffret – “Intersecting perspectives via two prehistoric feminine sexual figurations” – in Did it up and Put it in a bag – aug. 2021 – Bergren – Norway – pp. 29-44;
- Michael J. Winkelman – Shamans, Priests, and Witches: a cross-cultural study of magico-religious practitioners – Arizona State University 1992;
- Petrus de Ebulo – De rebus Siculis Carmen – edizione critica a cura di Fulvio delle Donne – Università degli Studi della Basilicata 2020;
- Aren M. Maier e Michael Dayagi-Mendels – “An Elaborately Decorated Clay Model Shrine from the Moussaeiff Collection” – in Bilder Als Quellen Images as Sources. Studies on Ancient Near Eastern Artefacts and the Bible Inspired by the Work of Othmar Keel – Academic Press – Fribourg 2007.