Daunia antica. Artigiane, terapeute, sacerdotesse: le donne delle stele (FG)

Daunia antica. Artigiane, terapeute, sacerdotesse: le donne delle stele (FG)

di Maria Laura Leone

Per diverse società antiche e tradizionali il tema femminile è stato principale nell’arte e nell’artigianato. Si è verificato anche nella Daunia più antica con le statue-stele, ho già trattato di questo in un articolo precedente redatto in inglese[1], del quale il presente è parziale rivisitazione. L’analisi ravvicinata delle molte stele femminili mi ha condotta a intravedere, nelle scene che le ricoprono, situazioni arcane e antiche ben note anche in ambito etnografico. Il testo che segue tratta una parte di tali aspetti e inquadra le donne delle stele in una dimensione ampia, nobilitata e collegata a un culto organizzato in cui si praticava, fra le altre cose, la guarigione e il rapporto col sovrannaturale. Da alcune scene si deduce l’uso farmacologico dei succhi del papavero da oppio. La pianta è, infatti, riconoscibile come un simbolo di “donne-medicina” che intervengono su determinati individui.

I Dauni, le stele e le loro donne

La civiltà dei Dauni si colloca tra la prima età del Ferro e la romanizzazione (IX-I sec. a.C.), periodo durante il quale sorsero circa venti centri abitati in un territorio più ampio dell’attuale provincia di Foggia. Le loro stele antropomorfe si collocano tra fine VIII e inizi del VI secolo, nella “seconda età del Ferro”, in una fase alto arcaica e squisitamente indigena, quando artisti e artiste, artigiani e artigiane, si espressero con grande creatività. Agli inizi del VI secolo a.C. le stele si trovano rotte e riutilizzate, è possibile che il culto cadde in una sorta di iconoclastia. Queste opere lastriformi, scolpite nel calcare locale e colorate di rosso, nero e bianco, sono i reperti ideali per ricostruire diversi aspetti del mondo di allora. Le narrazioni ritraggono un’intera compagine sociale, religiosa, forse mitica, e oltre ai contenuti esoterici riportano temi di vita quotidiana: una buona caccia, una pesca fruttuosa, un duello armato. Non mancano scene di possibili accordi amorosi o matrimoniali, come la situazione in cui una coppia è ritratta in un probabile amplesso. Vi si riconosce anche una gerarchizzazione dei ruoli: figure importanti sedute in trono oppure fornite di alti copricapi, portatrici dei vasi, suonatori di lira, aurighi, cacciatori e opliti. Su tutti i monumenti le donne sono ben rappresentate e lo stesso numero di stele femminili è sensibilmente superiore a quello delle stele maschili. Calcolando la differenza numerica tra stele maschili con armi e stele femminili senza armi risulta che queste ultime ebbero incidenza superiore da inquadrare in una loro funzione ancora sconosciuta[2].

Fig. 1 – lato anteriore e posteriore di una stele maschile. Sotto il braccio destro probabile scena “oracolare” (ph. M. L. Leone)

Stele maschile e stele femminile ritraggono due personaggi sempre simili a sé stessi, una coppia importante, forse un sommo guerriero o un dio con la corazza (Fig. 1), la spada e lo scudo, e una somma sacerdotessa, forse anche una dea, vestita in abito talare, ornata con collane e fibule, oggetti pendenti come lunghi triangolari pendenti dalla cintura a forma di “VVVV” e grandi amuleti circolari (Fig. 2).

Fig. 2 – lato anteriore e posteriore di una stele femminile. Oltre la veste ornata con geometrie si distinguono uccelli simbolici, personaggi a colloquio, le due fibule, i segmenti a VVVV presso un amuleto discoidale. Sul lato posteriore domina, in alto, una scena con portatrici di vasi guidate da un suonatore di lira. In basso sono appesi alla cintura cinque grandi papaveri, abbinati a due amuleti discoidali (ph. M. L. Leone)

Tra questi amuleti ve ne sono alcuni del tutto simili a capsule di papavero da oppio[3]. Una pianta che decora anche le trecce delle donne ritratte nelle scene (Fig. 3).

Fig. 3 – Confronto tra un’olla-imbuto simile a una capsula di papavero, portata come le donne sulle stele (A e B) mentre in C, la pianta secca del papavero intrecciata ai capelli, alla maniera delle stesse donne. (Foto e rilievo, M. L. Leone)

L’abbigliamento di entrambi è rigorosamente decorato con motivi geometrici e lascia spazi liberi nei quali vi sono scene descrittive popolate da animale e persone. Alcuni animali sono surreali, gli altri riflettono la locale fauna lagunare. Uomini e donne si distinguono per alcuni particolari: le donne hanno quasi tutte i capelli lunghi, raccolti in una treccia, e indossano una tunica che giunge sotto il ginocchio; gli uomini hanno abiti più corti o anche fermati in vita da una cintura. Quasi tutti i reperti, circa 2000 pezzi, sono conservati nel Museo di Manfredonia[4] e provengono dai due centri antichi di Cupola-Beccarini e Salapia (anche chiamata Salpe), un tempo affacciati sulle rive di una laguna lussureggiante ormai ridotta a pochi laghi e vasche di sale. I ritrovamenti sono avvenuti per raccolta di superfici e nessuna stele è stata trovata in sicura relazione con la propria tomba. Sono prive di contesto sicuro coevo e considerando che alcune stele sono molto piccole, alte solo 25 cm, è ipotizzabile che la destinazione d’uso non fosse quella di cippi sepolcrali, più verosimilmente di simulacri propiziatori, ex voto o atti di preghiera destinati alla coppia: guerriero e sacerdotessa. Diverse scene riportano a questo e manifestano la presenza di un élite sacerdotale a prevalenza femminile. È palese, infatti, che i monumenti abbiano personaggi e storie associati a una nutrita presenza di donne. Tuttavia, quelli dedicati al guerriero raffigurano soprattutto uomini, impegnati nei combattimenti e nella caccia, mentre le donne lo sono per lo più in attività rituali.

Sulle stele che rimandano alla sacerdotessa compaiono soprattutto donne mentre svolgono azioni auliche e presenziano agli affari degli uomini, colloquiano con loro, e spesso portano in equilibrio sulla testa vasi-olla con labbro molto espanso (Fig. 3 A e B), talvolta sfilano in processione guidate dal suono di una lira che è nelle mani di un musico (Fig. 4).

Fig. 4 – Scena di una stele. Donne in trono, assistite da uccelli simbolici, sembrano tessere al telaio mentre delle portatrici di vasi si rivolgono ad esse.

In altre scene parlano tra loro, praticano sedute terapeutiche e possibilmente oracolari. Tale mediazione col soprannaturale potrebbe essere in una scena che si ripete, dove una donna di dimensioni maggiorate rispetto all’adepta che le sta di fronte è su un trono e sta tessendo al telaio, ha la bocca socchiusa e si rivolge all’adepta che sembra pendere dalle sue labbra (Fig. 5 A).

Fig. 5 – A, particolare della scena «oracolare». Il personaggio seduto su un trono forse sta tessendo al telaio e sembra evocare, mentre l’adepta di fronte pare interrogarlo. In alto compaiono animali simbolici, due pesci e una chimera (rilievo, M. L. Leone)
B, parte centrale di stele femminile con i triangoli pubici a VVVV, abbinati a piccoli cerchi simili a gocce liquide. Forse metafora del ciclo femminile
C e D, possibili scene di sedute magico-terapeutiche
E, vaso con figure a clessidra reticolata e lunghi triangoli, simili a quelli delle stele, alternati a rigoli di un liquido: Chiusazza (Siracusa), 3500-3000 a.C. (ph. M. Gimbutas, 1989)

Forse evoca una profezia, pronuncia una formula magica, canta un inno oppure narra un mito. Non potremo saperlo! Ma sono queste le situazioni in cui le donne sembrano agire in ambito sacrale[5].

I segmenti a forma di “VVVV” e il genere muliebre

Stele armate e stele non armate hanno molti elementi in comune, l’abbigliamento è praticamente identico e le scene hanno entrambi temi che si ripetono, ma vi sono degli attributi che le distinguono nettamente, per esempio le armi riportano a un guerriero ma gli attributi a forma di “VVVV”, connessi al bacino della stele con ornamenti sono, a mio avviso, un chiaro indicatore muliebre[6]. Questo dettaglio è di capitale importanza per riconoscere le stele di genere femminili poiché hanno un’analogia con i triangoli pubici singoli o plurimi che compaiono su statuette, pietre, arte parietale e vasellame. Tali triangoli, sulle stele sono sublimati, allungati, e talvolta sono in abbinamento con dei piccoli cerchi paragonabili a gocce, possibili metafore del flusso ematico mensile della donna; il vaso di Chiusazza sembra esserne un esempio calzante (Fig. 5 B, E)[7]. Il numero dei triangoli, da tre a sei, può indicare i giorni del ciclo, la “pausa mensile” che varie culture etniche interpretano come il momento femminile di alta percezione sensoriale. Cosa i Dauni abbiano voluto intendere con questa simbologia lo possiamo solo dedurre. È possibile che il riferimento al ciclo mensile sia da intendere come uno status di verginità aulica. Allo stesso tempo, le grandi fibule incise sul petto del monumento indicherebbero il “fermo” del ruolo mammario. Tutto ciò è sovrapponibile a una donna che riveste uno stato curiale; pertanto, la stele femminile non ritrarrebbe una semplice defunta di alto rango bensì una figura solenne e le donne che sono ritratte sul suo corpo sarebbero le sue accolite.

Maria Luisa Nava, così come Silvio Ferri in precedenza[8], attribuisce alle stele daunie una funzione funeraria. Secondo l’autrice sono semata sepolcrali di una classe eletta costituita da guerrieri e notabili e le stele femminili, incluse nel gruppo con ornamenti, sarebbero solo quelle pettinate con un codino che scende sulla spalla. In base a questo l’autrice calcola[9] che su un campione di 187 reperti, ben conservati e leggibili, 4 hanno il codino, 23 sono di attribuzione incerta, 56 sono di guerrieri e 103 sono di notabili. In totale, 159 stele sono di defunti maschi, ricoprenti il ruolo di notabili e di guerrieri, e appena 4 stele sono di donne, vale a dire il 2,12%. Tale percentuale, però, suscita perplessità e domande. Perché i notabili sono vestiti, ornati e addobbati, esattamente come le donne col codino? Quale significato avrebbero i triangoli a forma di “VVVV” sul bacino di maschi notabili e che senso avrebbe la presenza di tante donne su tutte le stele? Le dissertazioni della Nava non chiariscono né questi, né altri dubbi, come il perché dai primi venticinque anni del VI secolo fino al III a. C. le stele si trovano rotte e riutilizzate in tombe e abitazioni. Chi mai avrebbe distrutto le lapidi degli avi, non rispettando il sacro culto degli antenati e dei defunti? Invece, un’iconoclastia derivata dal capovolgimento di una classe clericale, ormai scomoda e inefficiente, o l’ingresso di nuovi ordinamenti religiosi, spiegherebbero una tale distruzione.

Secondo Camilla Norman, una studiosa australiana che abbraccia la teoria della destinazione funeraria, i motivi a “VVVV” costituiscono un grembiule simbolico da riferire a donne fertili e pronte al matrimonio, anche per la presenza di tessitrici al telaio[10]. Anch’ella riconosce nelle stele il riflesso di una società in cui le donne hanno una presenza rilevante[11] ma non spiega il perché di tante donne defunte e pochi guerrieri defunti. Ancora una volta i conti non tornano. Secondo un’analisi personale i segni a “VVVV”, possibili “grembiuli” simbolici della fertilità, come riporta la Norman, sono da declinare in chiave cultuale ed è in quest’ottica che andrebbe intesa anche la tessitura; come la realizzazione di un tessuto da destinare alla somma sacerdotessa e/o alle donne vestite come lei. Ad Atene, in epoca vicina alle stele dei Dauni, anche le vergini ergastinai tessevano il peplo per la dea vergine Atena Partenos. Pertanto, la tessitura andrebbe intesa come un atto liturgico a cui partecipavano spiriti-uccello, accolite che portavano olle zeppe di un contenuto prezioso, e tessitrici che, simili a “maestà in trono”, cantavano oppure evocano miti e formule magiche. In questa liturgia va inserita il periodo del ciclo di una vergine sacra, connessa all’importanza della pianta del papavero, preziosissima per curare e lenire i dolori. La stele, così, si rivela il simulacro di un culto ierobotanico e i suoi papaveri, agganciati alla cintura e rovesciati verso il basso (Fig. 2), rappresenterebbero una seminagione rituale che, evidentemente, avveniva per il tramite di una vergine con il ciclo.

La ceramica vascolare

Da quanto esposto emerge che nella Daunia più arcaica esoterismo e medicina richiedevano la partecipazione delle donne, forse le stesse protagoniste dipinte su un raro repertorio di vasi figurati[12]. Non sono vasi contemporanei alle stele, vanno dal VI al III secolo a.C., ma hanno tematiche confrontabili con esse e forse ne sono una continuità. Anche su questi compare una coppia sacra ritratta mentre si scambia una pianta importante ma ancora da identificare[13]. Di solito è l’uomo che la riceve, ma sul vaso della Collezione Tardivat di Ginevra entrambi la mangiano e l’uomo stringe una lira alla quale è appesa una capsula di papavero, erroneamente interpretata come il plettro del suo strumento musicale (Fig. 6 A, B)[14].

Fig. 6 – A – Frammento di vaso con una scena a carattere iero-botanico. Una donna ha alle spalle una pianta di papavero gigante e consegna un vegetale a un uomo; da Salapia (Foggia), IV sec. a.C. (Foto M. L. Leone)
B – Particolare di una scena simile in cui la coppia mangia la pianta. La donna ha un bastone e l’uomo regge una lira dalla quale spunta un papavero. I due vegetali sono riprodotti sotto, come decorazione simbolica; Ginevra, Collezione Tardivat (ph. Chamay, 1994)

Sullo stesso vaso compaiono capsule decorative sulla superficie, simili a quelle presenti sulla brocca n. 63 e sul vaso filtro n. 35. Escluso questo piccolo repertorio, la ceramica daunia è a decoro geometrico. I decori sono colorati di rosso e bruno e le forme vascolari sono peculiari; come gli askoi a forma di anatra, gli attingitoi e i vasi-filtro ricchi di protomi suggestive, arricchiti da mani, piedi, facce zoomorfe, uccelli, cani-lupo, anse a bucranio, oppure figure antropomorfe a braccia aperte e anelli al posto delle mani[15]. Sui vasi-filtro spesso compare una protome di donna con fibule, monili, lunghe trecce e copricapo a polos, già definita sacerdotessa[16], o anche una sciamana, connessa all’efficacia dell’infuso officinale o preparato magico del vaso stesso. Si tratta di addizioni simboliche che riflettono un forte pensiero magico e superstizioso.

Le fonti antiche

Tra IV e III sec. a. C. alcune fonti citano le donne daune[17]. Timeo di Taormina le descrive in abiti scuri, cinte in larghe fasce, con alti calzari, il volto colorato di rosso fuoco e un bastone tra le mani. Ai Greci ricordano le Erinni. È chiaro che l’autore descrive donne non comuni, donne che intimoriscono e magari non accessibili. Ma le notizie più ampie vengono da Licofrone nell’opera Alessandra e dagli stessi Scholia. Licofrone descrive dettagliatamente cosa fanno le ragazze daune che non vogliono sposarsi: si rifugiano nel tempio della vergine Cassandra, la sacerdotessa profetessa il cui culto sarebbe stato introdotto da Diomene a Salapia, e abbracciano la sua statua. Si vestono di nero come le Erinni, si tingono il volto col succo di erbe malefiche e portano il bastone. Nel tempio situato presso la palude di Salpe (Salapia) – l’indicazione di Salpe è dello scoliasta Bizantino – Cassandra le accoglierà e garantirà loro la verginità[18]. È sorprendente come questa descrizione corrisponda a un sacerdozio di vergini e quanto il bastone richiami il papavero gigante. Infatti, la pianta può raggiungere un metro e mezzo di altezza, è simile a una mazza o scettro quando è stretta nelle mani e può essere malefica se si esagera con le dosi del suo succo: l’oppio. Oltre questi indizi di folklore, il passo di Licofrone ci indica anche una libertà femminile non comune per l’epoca, insita nella scelta di non sposare uomini non desiderati. Una scelta interpretabile, come una devozione “religiosa” a una profetessa deificata.

Artiste e artigiane

Le stele daunie sembrano testimoniare questa libertà insieme a una centralità di genere, evidentemente, sopravvissuta all’impatto delle culture indoeuropee[19]. È possibile che le donne nella Daunia antica godettero di qualche prestigio come le contemporanee Etrusche vissute in una specie di “sacca di resistenza al patriarcato”, un’oasi del femminino riportato in alcune fonti. Pare che in Etruria le signore non fossero sottoposte alla tutela del padre o del marito come, invece, avveniva in Grecia e a Roma, partecipavano ai banchetti e agli eventi pubblici, si intrattenevano a colloquiare con gli ospiti, si truccavano e si vestivano senza costrizioni[20]. Dalle stele deduciamo che le Daune erano attive anche nell’artigianato tessile ma non è escluso che realizzassero anche i vasi o che avessero un ruolo nell’ideazione-progettazione delle stele antropomorfe su cui sono protagoniste. Sono deduzioni, ma è ampiamente testimoniato che presso alcune popolazioni tribali la trasmissione del bagaglio magico-simbolico sia esclusivo dominio femminile. Ce lo confermano gli studi della ricercatrice Makilam, la studiosa magrebina che ha dato voce alle donne berbere Kabile, abili artigiane decoratrici di tappeti, ceramiche, capanne e tatuaggi[21].


Note
[1] Leone 2020 a-b.
[2] Il calcolo risulta dai reperti presenti nel catalogo: Nava 1980a.
[3] Leone 1990, 1992, 1995, 1996a, 1996c, 2000a, 2000b, 2002a, 2003, 2004, 2005, 2007, 2020a, 2020b.
[4] Di questo insieme, 1210 esemplari ben fotografati e documentati sono raccolti in un corpus: Nava 1980a.
[5] Per una dissertazione sul rapporto femminile con la sfera del sacro, in epoca orientalizzante, si veda: Von Else, 2008.
[6] Leone 1996 p. 57.
[7] È un vaso eneolitico decorato con triangoli penduli alternati a motivi a tremulo o rigoli: Gimbutas 2008, p. 243, fig. 379.
[8] Una raccolta esauriente degli studi di Silvio Ferri è in Nava 1988.
[9] Nava 2014, p. 159.
[10] Norman 2018.
[11] Norman 2011. È interessante l’analogia tra alcune scene presenti sulle stele e la processione delle Panatenaiche, con gli animali per i sacrifici, i portatori di offerte, i suonatori e le canefore: le portatrici di canestri colmi di doni, che portavano il peplo e i vasi per le libagioni.
[12] De Juliis 2009.
[13] Leone 1995, 1996abc, 2000, 2007.
[14] Chamay 1994, pp. 256-257; Chamay et Coutois 2003, pp. 128-129; De Juliis 2009, p. 112.
[15] Mayer 1914; De Juliis 1977; Yntema 1985.
[16] Maes 1975.
[17] Una raccolta completa e ragionata delle fonti che parlano dei Dauni, è in Notarangelo 2008.
[18] Licofrone Alessandra, 126/141; Notarangelo 2008, pagg. 38/44.
[19] Gimbutas 1989; Percovich 2007, 2009.
[20] Rallo 1989.
[21] Makilan 2007. http://convegni.associazionelaima.it/blog/estratto-da-simboli-e-magia-nelle-arti-delle-donne-kabyle-di-makilam/ (consultato il 07/01/2021).

Maria Laura Leone – Dicembre 2021


Bibliografia

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  49. Maria Leonarda Notarangelo – Etnografia e miti della Daunia Antica. Repertorio e commento delle fonti letterarie (fine VII secolo a. C. – XII secolo d.C.) – Grenzi – Foggia 2008;
  50. Luciana Percovich – Oscure madri splendenti – Le radici del sacro e delle religioni – Venexia – Roma 2007;
  51. Luciana Percovich – Colei che dà la vita, colei che dà la forma – Le civette di Venexia – Roma 2009;
  52. Antonia Rallo (a cura di) – Le donne in Etruria – L’Erma di Bretschneider – Roma 1989;
  53. Filli Rossi – Ceramica geometrica daunia nella Collezione Ceci Macrini – Dedalo – Bari 1979;
  54. Marguerite Rigoglioso – Partenogenesi. Il culto della nascita divina nell’antica Grecia – Psiche 2 – 2012;
  55. Giorgio Samorini – Gli allucinogeni nel mito. Racconti sull’origine delle piante psicoattive – Nautilus – Torino 1995;
  56. Giorgio Samorini – Origini italiane dell’oppio? Erboristeria Domani n. 396 – 2016 – pp. 70-76;
  57. Giorgio Samorini – Funghi allucinogeni. Studi etnomicologici – Telesterion – Bologna 2002;
  58. Matthias Seefelder – Oppio. Storia sociale di una droga dagli Egizi ad oggi – Garzanti – Milano 1990;
  59. Richard Evans Shultes, Albert Hofmann e Christian Ratsch – Piante degli dèi. I loro poteri sacri, guaritori e allucinogeni – Venexia – Roma 2021;
  60. Douwe Geert Yntema – “Messapian painted pottery – Analysis and Provisory Classification” – in Archeologische studiën van het Nederlands Instituut te Rome – Roma 1974;
  61. Douwe Geert Yntema – The matt-painted pottery of southern Italy – Utrecht 1985;
  62. Patrizia Von Eles – “Le ore del Sacro. Il femminile e le donne, soggetto e interpreti del divino?” – in Le ore e i giorni delle donne. Dalla quotidiana alla sacralità tra VIII e VII secolo a.C. – Catalogo della Mostra – Verucchio 2008 – pp. 149-156.
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