di Adele Campanelli
Tratto da Marija Gimbutas – Vent’anni di studio sulla Dea – Atti del Convegno omonimo – Roma 9-10 maggio 2014 – Progetto Editoriale Laima – Torino
Questo breve intervento è dedicato alle nostre antenate, “donne sapienti” e alla capacità di Marija Gimbutas di cercare e trovare la sua Madre Ancestrale e di restituirle la parola.
E a Canidia, alle vecchie peligne e sabelle di cui parla Ovidio nei Fasti, in rappresentanza di tutte le culture subalterne che la letteratura dei vincitori ha ridotto a comparse di storie minori.
Sulle rive di quello che fu il lago del Fucino, sulla sponda opposta a Celano, c’è un luogo carico di storia e di leggende, dove dieci anni fa gli scavi archeologici hanno individuato i resti di un santuario, caratterizzato dalla presenza di due templi a doppia cella. Il sito, in cui fu organizzata la città di Anxa, è un ripido versante montano ora ricoperto di boschi, frequentato già in tempi remoti dai devoti di Angitia, l’antica divinità madre dei Marsi. Il lucus Angitiae è noto dalla letteratura antica come bosco sacro alla dea maga, sorella di Medea, progenitrice della stirpe dei Marsi, famosi – proprio in virtù dei suoi insegnamenti – come incantatori di serpenti, conoscitori di erbe e veleni, indovini.
Gli studi chiariscono la natura di Angitia, la formazione dei miti che ad essa si ricollegano, e l’interpretazione delle fonti epigrafiche che ne attestano la diffusione.
La sua dimora sul lago Fucino, che il regime incostante delle acque rendeva misterioso e inquietante, la avvicina a Diana, signora di Nemi, e sorella di Apollo, di cui qualche traccia archeologica rimane anche in questa area. Sospesa tra cielo e terra, figlia del Sole ma anche, come Ecate, dea notturna, Angitia è la trasposizione “colta” della madre indigena, unica erede degli originari antenati mitici documentati nelle dediche ai dis ancitibus.
Il suo nome ricorda il dominio sulle ansie, sulle angine, sugli angusti dies e a questo ambito va ricollegato il giorno a lei dedicato come Angerona, nel calendario romano: il 21 dicembre, cioè il solstizio d’inverno, il momento nel quale la durata della luce diurna è la più breve e la notte la più lunga dell’anno.
Il culto di Angizia, di cui ci é stata tramandata una lettura grecizzata, sembra essere progressivamente emerso da un fondo comune di culti collettivi legati agli antenati, le cui attestazioni nelle grotte del bacino fucense risalgono al Paleolitico.
La prima connessione di Angizia con il Fucino è in Gellio, l’annalista vissuto nel II secolo P.E.C. che, in un passo riportatoci da Solino, identifica nella dea una delle figlie di Aeeta insieme a Circe e a Medea, sottolineandone, in contrasto con i malefici di Circe, la funzione positiva esercitata grazie alla conoscenza dei rimedi salutari, nonché le capacità di guaritrice che le sarebbero valse il culto quale divinità presso i Marsi.
Il rapporto di Angizia con i serpenti è già in Virgilio e risulta suggerito più direttamente dal commento di Servio che, identificando Angizia con Medea, ne fa derivare il nome dalla radice del verbo angere (soffocare): la dea, infatti, grazie ai suoi carmina (versi magici), avrebbe provocato il soffocamento dei serpenti.
Silio Italico attribuisce ad Angizia la capacità di manipolare le erbe tossiche e di curare l’effetto dei veleni, ma anche una grande facoltà di intervento sulle forze della natura.
Nel caso di Angizia è piuttosto difficile separare la sua natura magica da quella divina che già nel II secolo risultavano sincretizzate dalle fonti letterarie. Per altri versi le fonti stesse riferiscono come fosse divenuta dea per le sue doti curative.
La sua attribuzione allo stesso contesto magico cui gli antichi attribuivano Circe e Medea risale al IV secolo, e proviene dalla Campania, dove Angitia viene associata a Circe e Medea, figlie di Helios, confermando il suo carattere legato alla nascita e alla morte della luce solare.
La potenza sovrannaturale di Angizia ricalca luoghi letterari utilizzati anche per Medea, il cui mito greco precocemente assimilato in Etruria ne traccia una immagine di grande maga, dotata di poteri soprannaturali che le consentono di dominare e sovvertire le leggi della natura.
Tale immagine è molto coerente con le testimonianze più antiche come quella di Esiodo ed è priva delle connotazioni negative di cui verrà caricata nel corso del tempo. La sua migrazione nel territorio marso e cioè nell’Appennino interno, suggerisce un complesso rapporto tra il mondo etrusco e quello italico.
La vicenda riportata da Gellio di Medea che attraverso suo figlio regnò sui Marsi sembra essere il fossile di un mito penetrato e custodito localmente nelle terre intorno al Fucino e poi ripreso dal commento a Virgilio che ricorda come Medea, sorella di Circe, sarebbe giunta nel corso delle sue peregrinazioni nella terra dei Marsi per insegnare a questo popolo come addomesticare i serpenti. La sovrapposizione con Angizia sembra essere documentata dalla fonte che parla di Medeia anguitia.
Angizia viene detta anche Divia, nel senso di celeste, e Cereria sottolineandone il legame con la divinità madre ctonia agraria e funeraria, una divinità dunque legata agli aspetti della fertilità della natura e alla morte e rinascita della vita, cui non erano estranee caratteristiche mantiche ed oracolari relative ai suoi legami con il mondo infero.
L’influenza della mitografia greca si espande su tutto il Fucino, “grande come il mare” che viene “riconosciuto “come un luogo magico abitato da esseri terrifici. La natura selvaggia delle acque ora paludose, ora prepotenti nelle fasi di esondazione ha in qualche modo influenzato le descrizioni degli autori antichi che riscrivono le saghe locali attraverso l’uso di immagini letterarie caratteristiche dell’ellenismo. Il centro di diffusione di queste mitizzazioni erudite era stato nelle città di cultura greca ed etrusca della Campania settentrionale in un’epoca anteriore alla seconda guerra sannitica, presumibilmente risalente alla fine del V secolo P.E.C., con le quali i Marsi dovevano avere avuto frequenti ed intensi rapporti.
D’altro canto, alcune caratteristiche del luogo avevano favorito il riconoscimento nell’antica divinità femminile marsa, anche nelle limitrofe zone peligne e più lontano ad Isernia, di una dea simile alla Mefite della valle d’Ansanto o a Marica alla foce del Liri, che nasce non lontano da Luco lungo la vallata di collegamento con la Campania. Infatti, la tradizione erudita ne riferisce l’esistenza.
Le caratteristiche di alcuni luoghi geografici hanno rivestito un ruolo centrale nell’organizzazione del sacro nei processi di aggregazione etnico culturale delle varie stirpi italiche e spesso questi luoghi sono abitati da entità femminili per le quali il confine tra il divino e il magico è piuttosto sottile: si pensi per i Campani al lago di Averno e alla famosissima Sibilla Cumana, le sabine acque Cutilie abitate da Vacuna che soffocava col suo alito mortale i viandanti, la Valle d’Ansanto in Irpinia dove si venerava Mefite o come in Lucania a Rossano di Vaglio.
Inoltre la pertinenza ad Angizia di culti rupestri, che abbiamo ipotizzato all’inizio, potrebbe riferire anche la dea marsa a quelle figure abitatrici delle grotte cui è particolarmente pertinente l’immaginario legato alle maghe che, come Circe, sono spesso rappresentate nelle grotte. Una testimonianza archeologica della presenza di grotte abitate da divinità madri, in particolare la Regina Pia Giovia ed Herentas è in Abruzzo la grotta di Rapino, in cui la documentata pratica della prostituzione sacra sembra poter essere l’antefatto cui si potrebbero far risalire i racconti medievali sulle sibille, che nell’Appennino seducono i viandanti in grotte nascoste nel folto dei boschi in presenza di acque fatate.
Di queste leggende di antica origine sembra far parte la favola di Tuta, l’antica città che una volta sorgeva nei pressi della grotta del Colle. Ci riferisce il Cianfarani, che raccolse questo racconto sul posto, della maga Maruca, figlia di un’altra maga, Ruta. Maruca si era presa per amante un giovinetto bellissimo, Tase, ma tre fanciulle Ruma, Tatu e Sepiana glielo contendevano. Maruca arsa di gelosia scatenò contro le tre fanciulle che fuggivano tutti gli elementi e le uccise. Sia l’arcaicità dei nomi (Tuta Maruca è il nome italico di Chieti) – che non hanno riscontro nell’onomastica locale – che la presenza delle maghe e la vicenda amorosa non possono non ricordare miti e contenuti analoghi di altri posti. Del resto, la grotta sacra sembra il luogo ideale di svolgimento di riti religiosi legati alla morte e alla rinascita, selezionato a questo scopo sin dalle età più remote come testimoniano i materiali archeologici rinvenuti nelle grotte dell’Appennino ed in particolare in quella di Bolognano, in cui sono stati rinvenuti nei livelli più antichi sepolture di bambini con tracce di combustione e ocra.
È immaginabile che a un certo punto alla venerazione per antiche entità magiche locali, le cui caratteristiche principali sembrano essere quelle di conoscitrici dei fenomeni naturali, si sostituì la religione delle antiche madri sincretizzate fin dall’epoca preistorica nella figura della potnia theron di ambiente mediterraneo, con attribuzioni e caratteristiche non dissimili: penso a Feronia, Mater Matuta, Angizia/Angerona, Vesuna, che le letture di Licia Luschi fanno risalire alle fasi pre-cerealicole.
Il quadro delle particolarità del sito e i contatti con altri popoli contribuirono a caratterizzare la natura religiosa di Angizia, la cui tradizione permane tenacemente tra i Marsi attraverso il tempo, e ancora fino a ieri nei giochi popolari infantili che nel secolo scorso vennero registrati da studiosi del folclore.
Le recenti indagini nel sito del Lucus Angitiae hanno restituito tre statue femminili provenienti da un piccolo ambiente, parte di un edificio contiguo al tempio più antico che conferma la pertinenza di quest’area a culti femminili.
Si tratta di tre statue grandi un terzo del vero ritrovate parzialmente in situ accostate alla parete affrescata di un sacello. La prima a essere rinvenuta, l’unica fuori posto nei terreni di crollo della struttura, è in marmo e riproduce una divinità femminile ammantata che fa il gesto di svelarsi.
Un’altra, sempre in marmo, era disposta sulla parete di fondo e raffigura una Venere. La terza è in terracotta; anch’essa velata e ornata da una ricca collana, siede su un ampio trono completo di cuscino.
Per quanto riguarda l’identificazione dei tre soggetti rappresentati, di cui due forse facenti parte di un gruppo collocato sul fondo del sacello, è evidente che la tematica presente è quella della doppia funzione della donna nelle due accezioni, l’una più grecizzante di madre e figlia (Demetra/ Kore), l’altra maggiormente diffusa nel mondo locale di madre e sposa (Cerere/Venere).
Le letture iconografiche dell’opera in terracotta approfondite da Daniela Liberatore riconoscono nel soggetto una divinità matronale vicina a Demetra, realizzata da un artista magno-greco di grande qualità su incarico di committenti locali. La datazione delle tre opere intorno al II secolo P.E.C. se da un lato conferma alcune idee sui culti praticati in questa area, dall’altro offre nuovi indizi sulle caratteristiche religiose indigene del santuario e sugli influssi culturali stranieri che lo avvicinano ad altri ambienti.
La presenza di ex voto chiaramente riferibili alla sfera sessuale di un tipo assolutamente inedito non contrasta con le qualità delle divinità rappresentate nelle statue la cui identità riporta alla Potnia di antica memoria, fecondatrice, signora della vita e della morte. Gli aspetti più specificamente “dionisiaci” non contraddicono altri contesti abruzzesi e la generale vicinanza ai riti propiziatori della fertilità ben documentati anche in altre aree sacre della regione.
Anche la tipologia dei materiali votivi è assimilabile a quella koiné culturale etrusco-campano laziale, che vede introdotto uniformemente nell’Italia Centrale l’uso di dedicare oggetti per lo più fittili di fabbricazione locale connessi soprattutto con il rito della sanatio.
Eccezionali in questo quadro sono le mascherine fittili di forma rettangolare riproducenti un volto con o senza bocca. La presenza di questi oggetti di cui sembrano chiare da un lato le allusioni oracolari, dall’altro quelle connesse con la maschera funebre documentata sia nei santuari di Corvaro, negli Equicoli, di Corfinio (Fonte e sacello con dediche ad Ercole) e Castel di Ieri nei Peligni, nella Valle d’Ansanto (Santuario di Mefite), sia nella grotta del Colle in area marrucina, sembra avere il suo luogo di diffusione dal bacino fucense, in cui abbiamo la massima concentrazione proprio dal santuario di Angizia.
L’area archeologica appena esplorata è solo un tassello in un quadro di cui ancora sfuggono molti tratti. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile affermare che i due templi possano essere attribuiti ad Angitia. Tuttavia, la particolarità della doppia cella suggerisce di azzardarne la pertinenza a un doppio culto femminile, in particolare quello di Cerere e Venere, largamente attestate in Abruzzo in questa loro complementarietà di madre e sposa. D’altro canto, alcune testimonianze epigrafiche riferibili ad Angizia, seppur controverse, sembrano poter riferire anche la dea marsa all’ambito cererio. Il ruolo complementare con Venere ben si adatta alle particolarità che questa dea assume tra gli Italici, dove il suo stesso nome Herentas sottintende al dominio di cui è signora: il desiderio finalizzato alla procreazione. Inoltre la vicinanza tra Herentas e Mefite o Marica è già stata sottolineata da La Regina con assoluta chiarezza.
La problematica più interessante è senza dubbio quella relativa alla possibilità di identificare in questo, appena scavato, il santuario di Angizia e nelle statue scoperte la rappresentazione di quella divinità.
La particolarità del tempio a due celle è tuttora l’elemento maggiormente identificativo di un culto locale. Difatti la tipologia è assolutamente ignota all’architettura romana, e la sua replica, in dimensioni maggiori, nel tempio in opera reticolata non fa che confermare l’importanza e la continuità del doppio culto ivi praticato. La documentazione epigrafica esaminata dagli studiosi sembra accertare l’esistenza di una divinità Actia cui si associa la qualifica di Cereria, inoltre è già stata sottolineata la presenza in aree confinanti del sacerdozio femminile di Cerere e Venere che sembrerebbero due aspetti funzionali della donna madre e sposa. Questa Venere, dea del desiderio, Herentas in osco, è attestata in moltissimi luoghi di culto di area italica ed anche a Luco se è possibile riferire, come sostiene Sanzi Di Mino, a quella divinità il bellissimo originale greco conservato nella Collezione Torlonia dal Fucino. Come abbiamo già visto la sua sfera religiosa legata alla fertilità e alla sessualità è piuttosto documentata tra gli italici. Già in altre occasioni ci si è spinti a identificare nel doppio culto, ricalcato dai due tempietti accostati presenti nel foro di Teate, le due dee in questione, che pensiamo riproponibile anche per il caso dell’area sacra in corso di scavo dove il legame tra il tempio e le statue è suggerito dal ritrovamento sul pavimento della cella di destra, dell’avambraccio in marmo della piccola immagine identificata con Afrodite.
La difficoltà di riconoscere una divinità precisa nella statua in trono si giustificherebbe oltre che con l’assenza dell’attributo nella mano destra, anche con un linguaggio iconografico che mette insieme elementi diversi per rappresentare probabilmente una divinità locale le cui caratteristiche vengono assimilate a quelle di Demetra ma non perfettamente.
Le caratteristiche che Angizia assume nel III secolo e che sono documentate dalla tipologia dei materiali del contesto archeologico è tipicamente demetriaco, finanche nella sua familiarità con il serpente, documentata nelle fonti tardive che anche altrove è associato a Demetra e ad Ecate.
La trasformazione della dea/maga Angizia in una divinità vicina alla Demetra/Cerere romana ben si spiegherebbe con l’esigenza delle elites locali diretta al controllo dei sacra tradizionali anche attraverso l’autoromanizzazione, ben dimostrata dalla latinizzazione degli alfabeti già nel III secolo P.E.C. Nel tardo II secolo matura un clima intellettuale di resistenza e controacculturazione. Il fervore di attività intorno ai grandi santuari denota la volontà delle classi dirigenti italiche di stringersi attorno alle memorie patrie proprio nel momento in cui si presagiva il dissolvimento dei presupposti politico-economici che avevano dato luogo a quelle memorie.
Quale fosse il clima culturale locale è ben illustrato dalla tavola di Agnone, dove i due filoni – quello demetriaco e quello dionisiaco – si intersecano in modo originale.
Il prodotto è l’innesto di due ambiti di pensiero, quello pitagorico e quello orfico, caratterizzati da tendenze antimondane e mistiche, pratiche ascetiche e iatromantiche cui alludeva Platone parlando di filosofia italica, in riferimento al complesso delle forme di pensiero e alle credenze escatologiche, tradizioni sapienziali o forme sciamaniche, dottrine mistiche ed esoteriche e pratiche religiose.
Adele Campanelli
Tratto da Marija Gimbutas – Vent’anni di studio sulla Dea – Atti del Convegno omonimo – Roma 9-10 maggio 2014 – Progetto Editoriale Laima – Torino