Arene Candide: storia degli scavi – Finale Ligure (SV)

Arene Candide: storia degli scavi – Finale Ligure (SV)
Interno della grotta (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)

di Elvira Visciola con la supervisione di Elisa Bianchi, Conservatrice del Museo Archeologico del Finale

La Caverna delle Arene Candide risulta di fondamentale importanza a livello internazionale in quanto fornisce una sequenza di circa 10 metri di sedimenti con tracce di frequentazione umana tra il Paleolitico Superiore (circa 32.000 a.C.) ed il VI-VII secolo d.C., pertanto risulta essere ad oggi la più completa e meglio indagata stratigrafia archeologica del Mediterraneo occidentale. In particolare, la grotta è stata usata per circa 30.000 anni con funzioni diverse a seconda del periodo, nel Paleolitico Superiore come luogo di sepoltura, durante il Neolitico come abitazione con spazi per il ricovero degli animali e come luogo di sepoltura (la maggior parte delle sepolture neolitiche del territorio del finalese provengono proprio dalle Arene Candide), in epoca romana per attività produttive e per la conservazione di derrate. Inoltre, il deposito stratigrafico documenta tutte le fasi del Neolitico (5.800-3.600 a.C., con la datazione più antica per il Neolitico dell’Italia Settentrionale e per il Mediterraneo occidentale riferita al 5.800 a.C., ottenuta da un chicco d’orzo intrappolato all’interno dell’impasto di un frammento ceramico rinvenuto nei livelli del Neolitico antico della grotta), tutte le fasi dell’età dei Metalli (Rame, Bronzo e Ferro), fino ai livelli romani e bizantini che chiudono la sequenza.
La Caverna è situata a circa 89 metri di altezza sul livello del mare, nel promontorio della Caprazoppa che separa Finale Ligure Marina da Borgio Verezzi, in Provincia di Savona. Prende il nome dalla duna di sabbia quarzosa di colore bianco che i venti dell’ultima glaciazione avevano addossato al promontorio, duna che attualmente risulta scomparsa quasi del tutto soprattutto per l’intensa attività della limitrofa cava dei fratelli Ghigliazza, proprietari dei terreni, che hanno favorito l’estrazione della famosa “pietra di Finale” utilizzata sia come materiale da costruzione che per l’arte vetraria; attualmente della sabbia ne restano solo scarsi residui concrezionati in parete, mentre la duna compare in alcune foto dei primi anni ’20 del 900, quando era estesa dalle pendici della grotta fino alla riva del mare.

Quattro immagini dell’esterno: in alto a sinistra immagine di Caprazoppa intorno al 1860, a destra la strada che portava alla grotta; in basso a sinistra la duna che un tempo arrivava quasi all’altezza di 80 metri sul livello del mare e a destra l’ingresso alla grotta nel 1929 (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)

La cavità misura 70 x 20 metri e si presenta di forma allungata nel senso est-ovest, con l’apertura divisa in due da un enorme masso, attualmente saldato alla volta da concrezioni stalagmitiche. La parte interna è divisa in 3 zone: quella centrale più lunga e più stretta è chiamata “camera Issel”; quella a sinistra, la “sala Morelli”, ha forma circolare da cui si dipartono brevi cunicoli, da uno dei quali si accede ad una vasta sala, la “Solari”; quella a destra, la “sala Gandolfi”, è di minori dimensioni con l’ingresso segnato da un pilastro roccioso, ricca di concrezioni e stalagmiti ed è difficilmente accessibile.
Le esplorazioni della grotta cominciarono con il geologo Arturo Issel nel giugno del 1864, quando vi si recò per la prima volta in compagnia del naturalista Adolfo Perez di Nizza (noto alle cronache poiché aveva già scavato nelle grotte dei Balzi Rossi trovando preziosi reperti), rendendosi presto conto dell’enorme potenzialità del sito, ma dovettero passare circa 10 anni prima di iniziare le effettive ricerche.
Infatti, nel 1874 Issel, insieme al console britannico a Genova, signor Yeats Brown Montagne ed allo zoologo Victor Brooke, diede inizio agli scavi trovando a circa 40-50 cm. di profondità tracce di un focolare, cocci di stoviglie ed alla profondità di 160 cm. uno scheletro umano, un’accetta in pietra, vari pezzi d’ocra, lo scheletro di un bambino ed altri manufatti.
Nello stesso anno anche il sacerdote Don Pietro Perrando si recò alla grotta per ben due volte, riportando alla luce alcune parti dello scheletro di un bambino oltre a due scheletri, uno dei quali quasi completo, e molti manufatti; tra questi ultimi, di particolare importanza è da segnalare il ritrovamento della prima “lampadina”, a circa 2 metri di profondità dal suolo, ossia un piccolo vaso in terracotta a forma di pipa, tipico vaso neolitico delle grotte del Finalese.
Sempre nello stesso anno un nuovo esploratore, Anton Giulio Barrili, scoprì un quinto scheletro con corredo di cocci e conchiglie.
Il susseguirsi di queste scoperte indussero il Ministero della Pubblica Istruzione a promuovere una nuova campagna di scavo, affidata all’Issel che tra il 24 agosto ed il 3 settembre del 1876 scoprì nella parte orientale e media della caverna sette nuovi sepolcri inviolati, alcuni in ottimo stato, ed una ricca serie di manufatti in terracotta, in pietra ed in osso.
Nel 1883 Alfred John Wall, medico inglese dell’esercito delle Indie Orientali, tentò nuovi scavi verso l’estremità orientale della camera maggiore della grotta, penetrando in una camera ancora vergine dove trovò i resti di un focolare, numerosi cocci, ossa, conchiglie, frammenti di stoviglie, circa 70 elementi per monili in forma di cilindretti forati, alcuni coltellini in selce, una lampada di terracotta oltre a cinque sepolture; nella stessa area il sacerdote Nicolò Angelo Andrea Morelli riportò alla luce vari manufatti in pietra, in osso e in terracotta.

Veduta esterna della Caverna disegnata da Nicolò Morelli (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)

Dal 1885 al 1888 gli scavi furono proseguiti da Morelli in vari punti della grotta trascurati dai predecessori, in particolare all’estremità occidentale e verso nord-est, con il ritrovamento di un cospicuo numero di sepolture neolitiche, in prevalenza di bambini, e la prima statuina fittile ritrovata in Liguria (la statuina n. 1). Di particolare interesse sono le tavole acquerellate prodotte dal Morelli in un manoscritto ad illustrare e documentare le sue scoperte, spesso unica traccia dei suoi ritrovamenti.

Tavole acquerellate disegnate da Nicolò Morelli nel 1888 con alcuni reperti recuperati all’interno della grotta (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)

Ricerche di una certa ampiezza furono poi eseguite dal signor Giovanni Battista Rossi prima del 1893, ma dopo circa un trentennio di scavi condotti più o meno scientificamente questi cessarono completamente; il materiale raccolto negli anni venne in massima parte conservato nel Museo Civico di Archeologia Ligure della Villa Durazzo Pallavicini di Genova Pegli ed in minor parte nel Museo Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini di Roma, mentre poche notizie si hanno dei numerosi scavi clandestini che si avvicendarono nella grotta, segnalati nei diari di lavoro di tutti i ricercatori ufficiali, attività destinate per lo più al reperimento di reperti per il mercato antiquario.
Il primo luglio del 1939 venne eletto Soprintendente archeologo della Liguria il ventinovenne Luigi Bernabò Brea che sin da subito si concentrò nel Finalese con l’obiettivo di individuare la stratigrafia archeologica nelle caverne che fino ad allora erano state indagate senza alcun rigore scientifico. Nel 1940 visitò quasi tutte le principali grotte della zona, tra cui le Arene Candide dove decise di operare il primo scavo sistematico nei punti dove era stato ammucchiato il terreno di riporto degli scavi ottocenteschi, presupponendo che queste aree al di sotto degli strati indagati fossero intatte.

Planimetria della Caverna, con individuazione delle varie sale (ph. B. Brea, 1956)

Con la collaborazione del Prof. Luigi Cardini dell’Istituto di Paleontologia Umana di Roma, il 24 ottobre 1940 cominciò gli scavi che proseguirono in successive 4 campagne fino al 1942 e permisero di identificare una successione stratigrafica di 28 strati, dall’età romana fino al Neolitico ed oltre fino al Paleolitico Superiore, quando si registra la sparizione di animali domestici e della ceramica impressa (dallo strato 23 al 28).
Durante la quarta campagna di scavo, avvenuta tra il 20 marzo ed il 22 maggio 1942, vennero indagati i sottostanti livelli preneolitici, campagna che si rivelò estremamente fruttuosa perché, oltre alle numerose tombe epigravettiane, venne messa in luce, esattamente il 1 maggio del 1942, la sepoltura del “Giovane Principe” di epoca Gravettiana, datata al 26.300 a.C., con il ricco corredo di ornamenti ed utensili.
Gli eventi bellici portarono all’interruzione delle ricerche che ripresero solo nell’aprile del 1948, sempre sotto la direzione di Bernabò Brea, con altre 4 campagne di scavo fino al 1950 che, salvo la VII rivolta in gran parte agli strati epigravettiani, interessarono soprattutto il deposito a ceramiche. Nelle ultime due campagne Bernabò Brea non poté partecipare perché esiliato a Lipari in quanto si era opposto al regime fascista, pertanto la VII fu diretta dal Prof. Luigi Cardini, dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana e l’VIII (dal 28 aprile al 26 giugno 1950) dall’archeologa Virginia Ginetta Chiappella. I materiali di queste 4 campagne di scavo furono poi smistati in parte nel Museo Civico di Archeologia Ligure della Villa Durazzo Pallavicini di Genova Pegli ed in parte nel Museo di Finale Ligure.

In alto la stratigrafia alla fine della campagna di scavi di Bernabò Brea nel 1940 (ph. B. Brea, 1946) e in basso la sezione dello scavo 1948-50 (ph. B. Brea, 1956)

Analizzando la stratigrafia del sito indagata da Bernabò Brea, si evidenziano i seguenti periodi:

Strato 1: è quello più superficiale, pietroso con frammenti di grossi anforoni vinari di età romana imperiale ed altri vasi minori di argilla non dipinta ad essi contemporanei oltre a frammenti di vasetti di argilla scura decorati con solchi fatti al tornio, vasi cilindrici di pietra ollare e di bicchieri vitrei appartenenti all’età tardo romana, materiali che testimoniano l’uso della caverna come magazzino di derrate e merci.

Strato 2: contiene la prima ceramica d’impasto, estremamente rozza, mal levigata, riferibile alla cultura di Golasecca e datata all’età del ferro, con le prime testimonianze di industria litica ed ossea, coltellini, varie schegge di selce, una notevole quantità di conchiglie forate (sicuramente utilizzate per monili e collane) ed un pezzetto di ocra gialla limonitica. Nello stesso strato sono state trovate tracce di focolari con intorno fori dove si ipotizza fossero piantati pali che sorreggevano gli spiedi sui quali arrostivano le carni.

A: reperti nello strato 1, in alto di tarda età romana, in basso di età romana imperiale (ph. B.Brea, 1946); B: reperti nello strato 2 dell’età del ferro (ph. B. Brea, 1956)

Strati da 3 a 8: sono strati poveri di materiale archeologico, con ceramica d’impasto molto rozza negli strati più superficiali fino ad una ceramica più fine, lucida e ben levigata nei colori nero e rosso corallino a partire dallo strato 5; in ogni caso sono pochi i pezzi significativi, con anse ad ascia e decorazioni a solcature dell’età del Bronzo.

Strati da 9 a 13: strati in cui è più abbondante la ceramica, quasi totalmente del tipo lucida nera e rossa con forme tipiche della Civiltà della Lagozza fiorita nella Val Padana (cultura affine al tipo Chassey della Francia meridionale ed al tipo Cortaillod della Svizzera), datata al Neolitico Superiore, oltre a industria litica, ossa lavorate, conchiglie ornamentali ed un pezzo di ocra gialla scura limonitica (dallo strato 13). In questi strati sono stati raccolti anche alcuni oggetti, forse amuleti, ricavati da porzioni di crani umani; uno di questi è stato raccolto da Morelli, conservato al Museo Pegli ed è un disco irregolare di 32 mm. nel diametro maggiore, con perimetro regolarmente ellittico per 2/3 e rettilineo nella rimanente parte, con superfici levigate e margini smussati.

A: reperti dagli strati 3-8, in alto strumenti d’osso e di conchiglia dallo strato 3, in basso ceramica d’impasto dagli strati 4-7 (ph. B.Brea, 1946); B: reperti dagli strati 9-13 della civiltà della Lagozza (ph. B. Brea, 1956)

Strati da 14 a 16: strati nuovamente poveri di materiale, probabilmente perché in questo periodo la grotta è stata abbandonata, ma cominciano a comparire i primi frammenti di vasi a bocca quadrata a sostituzione di quelli tipici della civiltà della Lagozza.

Strati da 17 a 21: strati datati al Neolitico medio in cui aumenta fortemente la quantità di materiale archeologico, straordinariamente abbondante in 20 e 21, a segnare l’apogeo della civiltà dei cavernicoli del Finalese, ricca di vasi a bocca quadrata, oltre a vasetti a pipa (le caratteristiche “lampadine”), vasi con decorazione graffita, pintadere, accette di pietra verde, una macina molto bella nello strato 18, strumenti in osso, conchiglie ornamentali lavorate, alcuni pezzi di ocra rossa e gialla, decorazioni meandro-spiraliche, idoletti fittili in terracotta (la statuina 15 proveniente dallo strato 18), tutti elementi che fanno pensare a forti influenze balcaniche. Da segnalare nello strato 19 il rinvenimento di pezzi di intonaco di fango, forse perché all’interno della grotta sono state realizzate capanne o altre sistemazioni leggere per rendere più agevole l’abitazione. Dallo strato 21 è emerso lo scheletro di un bambino di pochi mesi, sepolto nella terra senza corredo e protezione, ed altre tombe.

Reperti dagli strati 17-21, Neolitico medio. A: vasi a bocca quadrata; B: gruppo di conchiglie di Cardium forate provenienti dallo strato 18; C: frammenti di statuine dallo strato 18; D: pintadere dagli strati 17, 18 e 19 (ph. B. Brea, 1956)

Strati da 22 a 24: strati in cui, pur essendo ancora abbondante, la ceramica è in forte diminuzione (soprattutto negli strati 23 e 24); i caratteri generali sono sempre gli stessi, ma i vasi a bocca quadrata sono sempre più rari, sostituiti da quelli a bocca quadrilobata. Anche dallo strato 22 sono emersi pezzi di intonaco (come per lo strato 19) e lo scheletro di un bambino lattante, sepolto nella terra senza corredo e protezione (come nello strato 21). Negli strati 22 e 23 sono emerse due pintadere ed una testina fittile, la statuina n. 3.

A: reperti dagli strati 22-24 (ph. B. Brea, 1956); B: reperti dagli strati 26 e 27 (ph. B. Brea, 1956); C: testina dallo strato 23 (ph. B. Brea, 1946)

Strati da 25 a 27: durante lo sbancamento dello strato 24 affiorarono grossi lastroni a copertura di quattro tombe che si addentravano nei sottostanti strati 25, 26 e 27 presentando le stesse caratteristiche; nei livelli più antichi emersero altre due tombe prive di corredo mentre, per il resto, gli strati risultavano privi di materiale archeologico con rare ceramiche, perlopiù pezzi non ornati di ceramica fine e più lucida o pezzi più rozzi e meno lucidi ornati con impressioni fatte nell’argilla molle. Tra le decorazioni impresse si distinguono quelle a segmenti dentellati (ottenute facendo scorrere una rotellina dentata su argilla molle), quelle a tremolo (ottenute imprimendo l’orlo con una lamina sottile ondulata), quelle a punti (imprimendo punti generalmente allineati in file regolari sia verticalmente che orizzontalmente), quelle a impressioni ripetute (ottenute con l’impressione di oggetti diversi, quali denti di animali, parti di conchiglie, ecc.), quelle a impressioni varie (simile al precedente ma con impressioni talmente ravvicinate da formare fasce continue più o meno larghe) e quelle a linee sottili (incisioni più o meno regolari). Le ceramiche rinvenute in questi strati hanno molti confronti in Italia meridionale (Puglia e Sicilia), in Francia Meridionale e Spagna, nonché in Africa settentrionale, a testimonianza delle comunicazioni a largo raggio che esistevano all’epoca. Tra i reperti anche materiali che venivano utilizzati per l’adorno, come denti di animali (canini atrofici di cervo) e conchiglie (gasteropodi, bivalvi, spondylus gaederopus) con tracce di lavorazione per la produzione di ornamenti elaborati o altri manufatti. Abbondanti erano anche le ossa di animali domestici e selvaggi, tutte sminuzzatissime al fine di estrarne il midollo anche dalle più piccole, oltre a gusci di Patella e di Trochus. La sparizione delle ceramiche e degli animali domestici rappresentava la fine del neolitico antico e l’inizio di una civiltà di tipo paleolitica associata ad una fauna ancora di tipo olocenica che per la prima volta veniva alla luce in Italia.

In alto a sinistra reperti dallo strato 25 (ph. B. Brea, 1946); in basso a sinistra lavorazione di anelloni in Spondylus Gaederopus e a destra bracciale in Spondylus Gaederopus (ph. M. Borrello e G. Rossi, 2005)

Strato 28: la ceramica era in forte diminuzione, quasi rara, così come per i gusci di molluschi, mentre aumentavano di molto le ossa di uccelli rarissimi finora e le ossa di fauna selvaggia: erano gli strati del Paleolitico Superiore. Degno di nota è la scoperta della tomba del “guerriero dal copricapo di conchiglie” con il suo corredo straordinariamente ricco, trovato al di sotto di una serie di focolari sovrapposti, cinque dei quali avevano dato un’industria del Paleolitico Superiore di tipo gravettiano.

Il Principe delle Arene Candide dallo strato 28

A questo punto la sequenza stratigrafica venne interrotta in quanto erano presenti grandi massi impossibili da rimuovere; il lavoro era pericoloso per la poca compattezza di alcuni strati pietrosi e per poterlo proseguire sarebbe stato necessario allargare la superficie dello scavo e quindi approfondire la trincea al di sotto degli strati già identificati, cosa impossibile per il problema dello scarico della terra estratta dallo scavo.
Passarono tanti anni di fermo, fino al 1969, quando la Soprintendenza Archeologica della Liguria decise di riprendere le attività di scavo all’interno della grotta affidandole a Luigi Cardini che nel 1970 indagò gli strati paleolitici. Dopo la sua morte prematura avvenuta nel 1971, la direzione degli scavi venne affidata a Santo Tinè che dal 1972 al 1977 svolse campagne annuali indagando soprattutto gli strati neolitici e ricostruendo la frequentazione delle Arene Candide dal Neolitico antico fino all’Eneolitico, avvalendosi anche della revisione dei reperti e dei campioni bioarcheologici degli scavi condotti da Bernabò Brea.
Dal 1997 ed in particolare nei primi anni 2000 Roberto Maggi, archeologo della Soprintendenza Ligure, ha diretto nuovi scavi nei livelli neolitici del settore nord orientale della caverna per il Ministero dei Beni Culturali, mentre l’ultima campagna di scavo è avvenuta nel 2012 anche con la collaborazione di università canadesi.
Arriviamo ai giorni nostri, altre vicende hanno interessato la caverna dopo la definitiva chiusura della cava Ghigliazza avvenuta nel 2007 ed il progetto di riconversione a fini turistici della zona, basato sulla trasformazione dei volumi industriali in residenziale, una forte pressione urbanistica che per fortuna non è stata mai attuata ma spinse gli enti preposti a svolgere attività di sistemazione e valorizzazione della caverna con fini di tutela attiva fino all’apertura al pubblico del sito avvenuta nel 2019. Dopo più di 150 anni dalle prime indagini bisogna segnalare che gli scavi finora condotti non hanno mai raggiunto il fondo della caverna (che alcuni pongono a ragion veduta ad alcuni metri più in basso della massima profondità raggiunta negli anni 50) e quindi è possibile che il sito delle Arene Candide conservi in sé tracce ancora più importanti di quelle finora emerse.

Neolitico recente, in alto a sinistra colino per produzione di latticini e a destra un’ipotesi di utilizzo; in bassoun vaso con prese a cartucciera esposta al Museo Pegli (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)
Neolitico medio, in alto vasetti miniaturistici, in basso vasetto a pipa (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)
Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata, in alto a sinistra bicchiere a bocca quadrata, fiasco con 3 anse ad anello e vasetto miniaturistico con fori per sospensione, a destra vaso con decorazione graffita proveniente dalla tomba VIII; in basso a sinistra ciotola semplice e a destra ciotola monoansata con orlo lobato (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)
Vaso monoansato a bocca quadrilobata (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)
Decorazione impressa, in alto ciotola riempita di ocra; in basso a sinistra ciotola con motivo impresso a conchiglia e a destra fiaschetto biansato con decorazione a puntini impressi (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)
Neolitico Antico, a sinistra Olla con prese a lingua, a destra tazza ansata (ph. su gentile concessione del Ministero della cultura, Soprintendenza ABAP IM-SV)

Elvira Visciola con la supervisione di Elisa Bianchi, Conservatrice del Museo Archeologico del Finale, dicembre 2022


Bibliografia

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