di Laura Violet Rimola
Nel Museo Civico Archeologico di Sesto Calende, proprio al centro della sala principale, è esposto un ricco corredo funerario risalente al VI secolo a.C., occasionalmente scoperto nel marzo 1977 nella zona Mulini Bellaria a Sesto Calende, a pochi passi dalle sponde del Ticino.
La piccola necropoli di cui faceva parte era disposta lungo il terrazzo del fiume e comprendeva sepolture di due fasi distinte, la prima riferibile al periodo che intercorre fra la fine del IX e gli inizi del VIII secolo a.C. (Golasecca I A2) e la seconda all’ultimo quarto del VI fino agli inizi del V secolo a.C. (Golasecca II B)[1]. La fase a cui appartiene il corredo in esame è la seconda.
Osservando la vetrina in cui sono disposti i reperti, si nota subito la targhetta con la breve spiegazione:
“Tomba principesca appartenente a persona di sesso femminile. Pur depredata parzialmente in antico, ha conservato reperti di grande pregio, testimoni degli scambi culturali ed economici della Cultura di Golasecca.”
Gli oggetti esposti sono quindi solo una parte del corredo originario[2], e comprendono diverse coppe di ceramica, una pregiata fusaiola d’ambra, perle globulari d’ambra, pendenti d’ambra dalla forma antropomorfa stilizzata, un bracciale di legno fossile, un lungo ed elaborato pettorale composto da trenta catenelle terminanti ognuna con un piccolo pendaglio di bronzo a forma di goccia, e alcuni elementi dell’abbigliamento femminile, come fibule e il fermaglio rettangolare di una cintura di cuoio. I reperti più preziosi, oltre che significativi per comprendere a chi appartenesse il corredo, sono tuttavia una situla di bronzo decorata a sbalzo e un bacile di bronzo sorretto da un tripode di ferro con piedini antropomorfi, entrambi legati alla sfera rituale, in particolare il bacile, che era utilizzato per svolgere pratiche divinatorie.
Questi due reperti permettono quindi di classificare la donna sepolta come una sacerdotessa, vissuta sulle sponde del Ticino, nei pressi dell’attuale Sesto Calende, durante la metà del VI secolo a.C.
Tutti i manufatti del corredo erano stati suoi, e rispecchiano il ruolo, nonché l’aspetto che aveva avuto durante la sua vita. La si può infatti immaginare vestita di un abito lungo e diritto – secondo lo stile dell’epoca – dalla stoffa morbida, fermata in vita da una cintura di cuoio con la fibbia rettangolare. Aveva fibule alle spalle, il collo ornato di pendenti e perle d’ambra, e un vistoso bracciale di legno al braccio. È probabile che il grande pettorale a catenelle non venisse da lei indossato quotidianamente, ma solo durante certi rituali, quando si serviva anche della situla e del prezioso tripode, nel cui bacile si affacciava per divinare, il volto riflesso sulla superficie dell’acqua.
Anche la fusaiola doveva avere per lei uno scopo sacro, in quanto fatta interamente d’ambra, a differenza di quelle delle donne comuni, che solitamente erano fatte di ceramica. È quindi possibile che facesse parte anch’essa degli strumenti rituali associati al culto che la donna praticava e rappresentava agli occhi del suo popolo.
Il suo ruolo doveva essere molto rispettato, e lei molto amata, basti pensare che il suo corredo, nonostante depredato in buona parte dai tombaroli, rimane il più ricco del museo – più ricco anche di tutti i corredi maschili. Questo suggerisce che la sua posizione all’interno della comunità era primaria ed estremamente importante.
Sebbene non ci sia dato conoscere come vivesse e quali fossero le sue mansioni sacerdotali, così come i rituali che conduceva, è possibile trarre ancora qualche indizio osservando più da vicino i suoi strumenti sacri, nonché l’ambiente in cui trascorse la sua vita. All’interno delle coppe raccolte dalla sua tomba è stata rilevata la presenza di offerte alimentari, e nonostante l’acidità del terreno è stato possibile individuare alcuni resti di ossa di volatili, e tracce di un liquido che potrebbe essere latte[3]. Alla sacerdotessa erano stati offerti latte e uccelli, forse per nutrirsi, anche se è possibile che gli uccelli ricoprissero il ruolo di psicopompi e che le fossero stati affiancati perché accompagnassero la sua anima durante il viaggio oltremondano.
Inoltre, analizzando la situla a spalla cordonata, caratteristica della cultura di Golasecca, si nota che il manico termina da entrambi i lati con un motivo a S che dà forma a due testine ornitomorfe stilizzate. È quindi ipotizzabile che la sacerdotessa fosse legata agli uccelli e alla loro simbologia. Viveva sulle sponde bagnate dal fiume con il suo popolo, a pochi passi dal Lago Maggiore, e forse parte dei suoi culti erano rivolti a divinità delle acque, della terra fertile e dell’aria, eredi dirette della neolitica Dea Uccello che incarnava fecondità, nutrimento, abbondanza, fortuna, e si manifestava in forma di uccelli acquatici come cigni, anatre, aironi, ma anche folaghe e svassi. Gli stessi uccelli che ancora oggi nuotano quieti sulle acque del Ticino, proprio di fronte al centro abitato di Sesto Calende.
Ma non erano solo il fiume e il lago a far parte del paesaggio sacro in cui visse la misteriosa sacerdotessa. Molto vicino alla sua sepoltura sorge infatti il gigantesco Sass da Preja Buja, un complesso di massi erratici di serpentino verde presso i quali si sono svolti rituali pagani sin dall’alba dei tempi. Il masso più grande mostra una caratteristica forma di chioccia – da cui il nome chioccia d’oro o pita d’oro – con la testa d’ariete, mentre la pietra orizzontale posta ai suoi piedi presenta diverse incisioni in forma di anelli, sedili, numerose coppelle, ed era utilizzata come altare.
È innegabile che la sacerdotessa di Sesto Calende ben conoscesse il megalite, e lo frequentasse abitualmente, ovvero che proprio davanti ad esso praticasse alcuni dei suoi riti, usando la grande pietra coppellata come ara su cui è probabile lasciasse offerte di cibo e di liquidi come il latte, il sangue e forse qualche tipo di bevanda fermentata prodotta all’epoca, come il vino di uva o frutta selvatica e la birra rossa aromatizzata[4]. Le coppelle, inoltre, è possibile fossero utilizzate nei rituali curativi. La pioggia che si raccoglieva al loro interno assorbiva le proprietà minerali della pietra e veniva usata per guarire certe infermità.
È importante aggiungere che la mattina di ogni equinozio primaverile i primi raggi solari illuminano l’occhio della chioccia litica, inciso nella pietra a forma di sole raggiato. È quindi possibile che una delle celebrazioni svolte accanto al megalite fosse proprio dedicata alla rinascita solare, ovvero al ritorno della luce dopo il buio e freddo inverno. E forse in queste occasioni la sacerdotessa indossava le sue collane e i pendenti d’ambra, pietra solare per eccellenza, che rilucevano dorati sul suo collo e richiamavano anch’essi il sorgere del nuovo sole.
Infine, si ricorda che per tradizione il masso erratico è sempre stato associato alla Grande Madre, e ancora in tempi relativamente recenti, le donne che desideravano avere figli, o un parto facile, vi si recavano e lo toccavano con il ventre – o si sedevano sui sedili incisi sull’altare. È quindi probabile che parte dei riti praticati alla Preja Buja fossero dedicati al divino femminile e alla sua armoniosa influenza sul corpo delle donne[5].
Il Sass da Preja Buja aveva dunque una parte essenziale nella vita della nostra antica donna, ma non era l’unico complesso megalitico che lei conosceva, e forse frequentava. Proseguendo lungo il sentiero a margine del quale sorge la grande chioccia di pietra, raggiungendo la sommità della collina e inoltrandosi nel folto del bosco, si può trovare fra la fitta vegetazione un altro simbolo degli antichi culti della zona, ovvero un piccolo dolmen. Sotto le sue pietre si nasconde una camera sepolcrale, da cui negli anni ‘60 venne trafugata un’urna cineraria, e nonostante non si abbia alcuna certezza in merito, si può presumere che anche in questo caso l’urna fosse accompagnata da un corredo.
Anche se ai giorni nostri questo dolmen è quasi del tutto sconosciuto, è verosimile che fosse ben noto all’epoca in cui visse la nostra sacerdotessa, la quale forse vi si recava per svolgere alcuni dei suoi rituali in armonia con la natura, o semplicemente per celebrare il ricordo di chi vi era sepolto: probabilmente una donna o un uomo che godeva di particolare rispetto e onore fra gli antichi abitanti del posto.
In base ai reperti rinvenuti e alle caratteristiche del territorio al quale appartengono, è quindi possibile accennare un ritratto della misteriosa sacerdotessa di Sesto Calende, la quale doveva senza dubbio essere una profetessa, una divinatrice che sapeva vedere e leggere segni e presagi nelle acque del bacile, una filatrice che utilizzava la fusaiola d’ambra per motivi cultuali, una donna sacra che indossava quotidianamente e/o durante certi rituali gli ornamenti distintivi che l’hanno accompagnata nella morte. Era una depositaria della tradizione cultuale del suo popolo, un’incarnazione vivente del divino che guidava spiritualmente la propria comunità, una sposa della terra, del sole e del fiume, forse intimamente legata agli uccelli acquatici e al loro volo, e praticava antichissimi riti al cospetto della Preja Buja.
Purtroppo fra gli oggetti depredati dai tombaroli dal suo corredo funerario vi è anche la sua urna. Questo grande vaso cinerario di ceramica decorata che conteneva le sue spoglie, non è mai stato trovato, e se non è andato perso potrebbe fare parte di qualche illecita collezione privata.
Il corredo sacerdotale, o almeno quel che ne è rimasto, è stato separato dalla sua legittima proprietaria, e lei non c’è più. Ma la sua storia è rimasta impressa nei suoi oggetti, nei luoghi che frequentava, nella cura con cui è stata sepolta. E proprio grazie ad essi, a distanza di millenni, questa antica donna può essere di nuovo conosciuta e ricordata, e la sua memoria onorata come lo era un tempo.
Le sacerdotesse del tripode di Golasecca
Come abbiamo visto, la tomba del tripode di Sesto Calende offre abbastanza indizi per tentare di conoscere colei che vi era stata inumata. Tuttavia occorre dire che non è l’unica sepoltura con queste caratteristiche, poiché ne sono state trovate altre molto simili, sia nella stessa zona, a Castelletto Sopra Ticino, sia in altri centri di sviluppo della cultura di Golasecca, ovvero nel comasco, in località Rondineto, e nel vercellese, nei dintorni di Pezzana.
Queste tombe femminili erano tutte dotate di tripode con bacile divinatorio, dunque appartenevano ad altrettante sacerdotesse, e inoltre, fatta eccezione per quella di Castelletto che è di poco precedente, sono contemporanee. Le donne che vi giacevano avevano vissuto tutte nello stesso periodo storico, svolgevano pratiche rituali simili – se non identiche – usando gli stessi strumenti sacri e probabilmente celebravano gli stessi culti. È quindi lecito domandarsi se in origine facessero parte dello stesso centro cultuale, ovvero di una sorta di arcaica sorellanza sacerdotale stanziata nel primo centro di sviluppo della cultura di Golasecca, e si fossero poi separate, seguendo – o guidando – i gruppi che si spostarono verso il comasco e il vercellese per cercare nuove terre da coltivare e abitare, ovvero per espandere e far fiorire in altri luoghi la propria cultura.
Non potendo trovare conferma a questa affascinante ipotesi e dovendoci limitare a considerare solo ciò che è dimostrabile in base ai reperti raccolti, è tuttavia possibile affermare che nella cultura di Golasecca le donne, in particolare quelle che, per via della presenza nelle loro sepolture di oggetti a destinazione rituale, svolgevano il ruolo di sacerdotesse, godevano di un’importanza e di una considerazione uniche. I loro corredi, seppure spesso saccheggiati e quindi dimezzati, erano i più ricchi[6], i loro oggetti i più raffinati e pregiati. Erano punti di riferimento a cui gli abitanti del villaggio chiedevano consiglio e responsi profetici, e guidavano la vita spirituale celebrando gli antichi riti ai piedi delle antiche pietre, immerse nei boschi rigogliosi, o sulle quiete spiagge bagnate da fiumi e laghi. Ma soprattutto, erano percepite come tramiti fra l’umano e il divino. Inseparabili dalla divinità stessa, poiché donne, creature sacre per natura.
APPENDICE – I corredi delle sacerdotesse
Tomba di Sesto Calende – Località Mulini Bellaria – Ultimo quarto del VI e inizi del V secolo a.C.
Il corredo della sepoltura detta “tomba del tripode”, scoperta in località Mulini Bellaria a Sesto Calende comprende ceramiche, ornamenti e oggetti riferibili all’abbigliamento femminile, una situla di bronzo e un tripode. Gli oggetti di ceramica sono composti da “una gran coppa ad alto piede svasato a tromba con orlo a tesa, quattro coppe ad alto piede con un motivo a raggiera reso a stralucido all’interno della vasca, due con orlo rientrante e due con orlo diritto; un boccale a corpo tronco-conico, collo distinto e orlo esoverso” [7].
Gli ornamenti e gli oggetti relativi all’abbigliamento annoverano un bracciale, o armilla, di legno fossile, lignite o sapropelite, un fermaglio rettangolare in lamina bronzea che faceva parte di una cintura di cuoio ricoperta interamente di piccole borchiette di bronzo; dieci fibule, cinque delle quali a sanguisuga; quattro fibule ad arco composto che presentano tracce di rivestimento in corallo; una grande fibula ad arco composto, che “recava appeso all’ardiglione un pendaglio lungo 50 cm, formato da un elemento tubolare di verghetta bronzea avvolta a spirale e ripiegato a U rovesciata, dai capi del quale fuoriescono due coppie di sostegni che reggono trenta lunghe catenelle, ciascuna delle quali terminante con un pendaglietto di bronzo del tipo a goccia”; diverse perle d’ambra che forse in origine erano infilate nell’ardiglione delle fibule, una fusaiola d’ambra e due pendagli d’ambra stilizzati in forma antropomorfa femminile, forse parte di una stessa collana” [8].
La situla di bronzo appartiene al tipo “con spalla cordonata, caratteristico della cultura di Golasecca per tutto il VII e VI secolo a.C.”; è caratterizzata da un manico le cui estremità terminano “con la caratteristica piegatura a S, che forma il motivo della testa ornitomorfa stilizzata” ed è decorata a sbalzo con borchiette e puntini.
Il tripode è “costituito da un bacino in lamina bronzea a corpo leggermente carenato, fondo a calotta e orlo esoverso a tesa”. Il suo supporto è formato da “tre aste di ferro fissate da una parte all’orlo e alla parete del bacino e inserite dall’altra in un peduccio di bronzo fuso a forma di gamba umana” [9].
Il corredo si trova attualmente al Museo Civico di Sesto Calende.
Tomba di Castelletto Sopra Ticino – Località Motto della Forca – Metà e terzo quarto del VI secolo a.C.
Più antica rispetto alle altre, e quindi appartenuta a una sacerdotessa che visse pochi decenni prima, è la tomba scoperta nel 1877 a Castelletto Sopra Ticino, in località Motto della Forca – oggi Motto Falco – che appartiene alla fase cronologica precedente quella di Sesto Calende, ovvero al periodo fra la metà e il terzo quarto del VI secolo a.C. (Golasecca II A-B).
Il corredo è composto da: “un’urna cineraria a corpo biconico globoso decorata a stralucido, un bicchiere a corpo globoso, collo distinto e labbro estroverso, una ciotola coperchio a basso piede e orlo introflesso, un piccolo boccale a corpo globoso, due coppe tronco-coniche con labbro diritto e basso piede svasato a tromba, una quarantina di armille di bronzo del tipo a capi aperti, 12 anellini di argento e un anello di bronzo infilati sull’ardiglione di una fibula, forse del tipo a navicella, ormai non più rintracciabili. Il tripode aveva un bacino di lamina bronzea a forma di calotta con orlo esoverso a tesa.” Le tre zampe di sostegno, fatte di ferro, erano frantumate in tredici frammenti e all’epoca del ritrovamento non sono state ritenute degne di nota, così non sono state conservate [10]. Il corredo è conservato al Museo di Antichità di Torino.
Tomba di Pezzana – Località Dosso del Lupo – Fine del VI e inizi del V secolo a.C.
Alla stessa epoca della tomba di Sesto Calende appartiene quella trovata nel 1889 in provincia di Vercelli, nel comune di Pezzana, e precisamente in località Dosso del Lupo, sulla sponda destra del fiume Sesia. In occasione dello spianamento di un tumulo per livellare i campi agricoli, emerse il frammento di quello che si scoprì essere un tripode. Gli scavi attuati restituirono quindi altri oggetti riferibili alla sfera religiosa: una cista a cordoni e fasce di puntini, in lamina bronzea, alta circa 23 cm, con diametro di 27 cm, rivestita di una patina verde e dotata di due manici di bronzo muniti di occhiello; un piccolo vaso ansato ridotto in pezzi, e un boccale.
Il tripode era composto da un bacile di lastra di rame, e dei tre piedi che dovevano sostenere il recipiente ne venne alla luce uno solo, fatto di ferro e molto corroso dalla ruggine. Quest’asta mostra nella parte inferiore la forma di una gamba umana, terminante con un piedino di bronzo ben lavorato. Accanto a questo, venne trovato anche il frammento di un’altra asta di sostegno in ferro, lunga pochi centimetri. Le tre gambe dovevano avere un’altezza totale di circa trentatré centimetri.
Sebbene non siano rimasti ornamenti od oggetti relativi all’abbigliamento che possano confermare l’appartenenza della tomba a una donna, l’entità dei reperti rinvenuti è identica a quella del corredo femminile di Sesto Calende, pertanto è probabile che anche in questo caso la sepoltura contenesse le spoglie di una donna, e dunque di una sacerdotessa.
L’ubicazione della tomba prova inoltre che gli stessi popoli che abitarono le sponde del Ticino si spostarono anche nel vercellese, stabilendosi ai margini della Sesia e sviluppando in questa zona la cultura di Golasecca [11].
Il corredo è andato perso da molti anni, oppure è conservato in collezioni private di cui non si ha notizia.
Tomba di Rondineto (CO) – Fine del VI e inizi del V secolo a.C.
Coeva alle due sepolture di Sesto Calende e Pezzana, è infine quella situata in un altro grande centro di sviluppo della cultura di Golasecca. In località Rondineto, in una necropoli poco distante dal grande abitato protostorico di Como, è stata trovata “una gamba di bronzo fuso con ancora inserita nella parte alta l’estremità di una verga di ferro, che è certamente il peduccio di un tripode come quelli di Pezzana e Sesto Calende” [12]. Il corredo si trova ai Musei Civici Paolo Giovio di Como.
Laura Violet Rimola – febbraio 2021
Note:
[1] Cfr. Raffaele Carlo de Marinis – “La tomba del tripode di Sesto Calende” – in Riti e Culti nell’età del ferro – Conferenze Giugno 1998 – pag. 18;
[2] La tomba era stata già depredata in passato: “la lastra di copertura era stata asportata, nella parte nord-occidentale della camera sepolcrale non venne rinvenuto alcun oggetto di corredo, l’urna cineraria e il cosiddetto bicchiere accessorio, elementi tipici e costantemente presenti nelle tombe della facies del Ticino della cultura di Golasecca, risultarono assenti. (…) Il crollo di una lastra e di numerosi ciottoli appartenenti all’originaria sopracopertura, ha permesso la conservazione di una parte del corredo, anche se gravemente danneggiato per lo schiacciamento subito.” (Cfr. Raffaele Carlo de Marinis – op. cit. – pagg. 17-18);
[3] Cfr. Raffaele Carlo de Marinis, op. cit., pag. 18-19, 21;
[4] A tal proposito è da segnalare un’importante scoperta avvenuta recentemente a Pombia, in provincia di Novara, dove è stata rinvenuta una sepoltura con urna cineraria e bicchiere accessorio del 560 a.C., nel quale sono state rilevate tracce di una bevanda ricavata dalla fermentazione dei cereali e aromatizzata con erbe e luppolo: la prima testimonianza di preparazione della birra in Europa. Per approfondire si veda Filippo Maria Gambari, Lo sviluppo delle bevande fermentate nella preistoria e protostoria della Cisalpina, sulla base dei dati archeologici e linguistici; e Filippo Maria Gambari, Bevande fermentate in Italia nord-occidentale.
[5] A seconda delle epoche la Grande Madre ha assunto volti e nomi diversi, e in questa area precisa era venerata soprattutto nel suo aspetto di virginea dea dei boschi, delle pietre, delle acque, della terra, delle donne, ma anche della bellezza e dell’armonia della natura. A dimostrarlo vi è un cippo del I-II secolo d.C. rinvenuto nell’Oratorio di San Vincenzo, a pochi passi dalla Preja Buja, che era stato a lungo utilizzato come supporto per l’acquasantiera. Il cippo reca incisa questa dedica: “Per comando e ordine / della celeste Diana Augusta, / agli dei e alle dee / tutt’insieme, Gaio Elpio (?) / per sé con la madre e i figli / tutti, sciolse il voto.” L’inscrizione viene così spiegata: “Per ispirazione, probabilmente nel sonno, della dea Diana (…) un devoto dal nome incerto fu indotto, per il bene suo e dei suoi, a formulare un voto rivolto a dei e dee insieme. La formula dell’ispirazione di Diana e l’offerta a tutte le divinità sono rare; ma un caso davvero unico fin qui è che esse siano indicate come “unite, tutt’insieme” (…).” (Cfr. Antonio Sartori, “Le epigrafi romane del Museo di Sesto Calende”, in Maria Adelaide Binaghi e Mauro Squartanti, La raccolta archeologica e il territorio, pag. 160). La stele è dunque estremamente importante, e la sua presenza in loco lascia intendere che il sito stesso era considerato sacro e caro a molti dèi e molte dee, soprattutto a Diana. Considerando la continuità di culto nella zona, è quindi possibile immaginare che la Diana il cui nome venne scolpito nella pietra in età romana imperiale fosse passata attraverso la interpretatio romana, e derivasse da una divinità precedente che incarnava le sue stesse caratteristiche. Una divinità onorata con un altro nome, o forse senza alcun nome, che rappresentava allo stesso modo lo spirito dei boschi, delle pietre, delle acque, della terra, così come delle donne e in generale della natura tutta. Una divinità che era celebrata anche negli altri siti della Cisalpina dove vennero rinvenute steli simili a questa, e che, sempre per continuità di culto, somigliava forse a quella a cui era dedicata la nostra sacerdotessa in un’epoca ancora più lontana.
[6] Nel suo testo, de Marinis spiega: “La tomba [del tripode], inoltre, illustra in maniera esemplare un fenomeno caratteristico della cultura di Golasecca tra la metà del VI e gli inizi del V secolo a.C.: le tombe più ricche in questo periodo sono femminili e accanto ad oggetti d’ornamento di lusso presentano anche arredi specializzati a destinazione rituale, com’è il caso del tripode o nelle coeve tombe della Cà Morta i cosiddetti doppieri o ad Albate l’elaborato vaso ad alto piede, tre bracci e tre gutti ornitomorfi.”. Cfr. Raffaele Carlo de Marinis, op. cit., pag. 27;
[7] Ibidem, pag. 19;
[8] Ibidem, pag. 25;
[9] Ibidem, pag. 21;
[10] Ibidem, pag. 23;
[11] Cfr. Camillo Leone, “Alcuni oggetti scoperti a Pezzana nel Vercellese”, in AA.VV., Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino, pagg. 247-254; e Raffaele Carlo de Marinis, op. cit., pagg. 23-24;
[12] Cfr. Raffaele Carlo de Marinis, op. cit., pag. 25.
Bibliografia
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- Raffaele Carlo De Marinis, Serena Massa, Maddalena Pizzo – Alle origini di Varese e del suo territorio – L’Erma di Bretschneider – Roma 2009;
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